* A Project Gutenberg Canada Ebook * This ebook is made available at no cost and with very few restrictions. These restrictions apply only if (1) you make a change in the ebook (other than alteration for different display devices), or (2) you are making commercial use of the ebook. If either of these conditions applies, please check gutenberg.ca/links/licence.html before proceeding. This work is in the Canadian public domain, but may be under copyright in some countries. If you live outside Canada, check your country's copyright laws. IF THE BOOK IS UNDER COPYRIGHT IN YOUR COUNTRY, DO NOT DOWNLOAD OR REDISTRIBUTE THIS FILE. Title: Contrada dei Gatti. Proiezioni. Author: Cagna, Achille Giovanni (1847-1931) Date of first publication: 1924 Edition used as base for this ebook: Milan: A. Barion, 1924 (first edition) Date first posted: 17 April 2010 Date last updated: 17 April 2010 Project Gutenberg Canada ebook #519 This ebook was produced by: Carlo Traverso, Barbara Magni & the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdpcanada.net This file was produced from images generously made available by the Biblioteca Nazionale Braidense * Livre électronique de Project Gutenberg Canada * Le présent livre électronique est rendu accessible gratuitement et avec quelques restrictions seulement. Ces restrictions ne s'appliquent que si [1] vous apportez des modifications au livre électronique (et que ces modifications portent sur le contenu et le sens du texte, pas simplement sur la mise en page) ou [2] vous employez ce livre électronique à des fins commerciales. Si l'une de ces conditions s'applique, veuillez consulter gutenberg.ca/links/licencefr.html avant de continuer. 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CAGNA CONTRADA DEI GATTI PROIEZIONI 1924 A. BARION--EDITORE MILANO Tip. F. Madella--Sesto S. Giovanni. PUBBLICAZIONI DI A. G. CAGNA _Un bel sogno._--Un volume. _Rivincita._--Un volume. _Noviziato di sposa._--Un volume. _Provinciali._--Un volume. _ALPINISTI CIABATTONI._--Un volume. _Mendicanti._--Un volume. _Teatro._--Un volume. INDICE CONTRADA DEI GATTI: _Antitesi di Codarossa_ _Pag._ 11 _Via Leonardi_ » 19 _Il buon diavolo zoppo_ » 21 _La Torre_ » 24 _L'ala_ » 28 _Il passero_ » 31 _Il ragno o la mosca?_ » 34 _Codarossa_ » 38 _Le vittime_ » 40 _Amleto_ » 43 _La madre_ » 46 _Mattutino_ » 49 _Stornelli_ » 53 _Le suore di Santa Chiara_ » 55 _Meriggio_ » 60 _Figurine_ » 64 _L'amore_ » 66 _Tramonto_ » 68 _Crisi municipale_ » 71 _Notturno_ » 74 _Sabba gattesco_ » 76 _Tragica ironia_ » 79 _Ricorsi antichi_ » 80 _? ? ?_ » 83 MAOMETTO » 89 CORPUS DOMINI » 129 ALLA GENTILE MIA COGNATA GINA ROSSI ZACCHEO ANTITESI DI CODAROSSA _Gatto municipale._ L'antitesi fra me Codarossa, e l'autore di questa «_Contrada dei Gatti_», si delinea apparentemente dai nostri nomi, i quali per antichissima tradizione sono simboli di un irriducibile avversione di razza. Ora non più; i progressi accelerati dell'arte lirica e drammatica, hanno ingentilito i costumi, talchè, può dirsi che ormai Cani e Gatti costituiscono una sola e grande e armoniosa famiglia. Nè rechi maraviglia il tono sostenuto di questo discorso: nella mia qualità di gatto impiegato civile, frequento assiduamente la biblioteca municipale per dovere professionale, e per diletto. Sono perciò un gatto di rango, gatto intellettuale, anche prescindendo dai diplomi gentilizi della mia genealogia che rimonta ai gatti sacri di Pelusio, ai tempi di Sennacherib. E perciò, per impulso di solidarietà fraterna, domando la parola in prò dell'autore mio collega. Il quale è una fiammella spirituale solitaria, un'anima errante esposta a tutte le correnti come la proverbiale Badìa di Spazzavento: un cerebrale di psicologia composita, sdoppiato in permanente dissidio con se stesso; un _frondeur_ caustico, lirico ed elegiaco ad un tempo, mezzo levriere e mezzo lepre, entusiasta e riflessivo, pronto ad abboccare con impeto, qualsiasi questione: ma sul più bello, il suo _doppio_ lo arresta, e allora egli ragiona, torna indietro, e scivola via. Il micio mio minor fratello, chiamato Arlecchino per il suo pelo maculato, era psicologicamente un animale dello stesso stampo dell'autore, come lui mezzo filosofo e mezzo poeta, indeciso e digiuno affatto di quel buon senso pratico che insegna a vivere al _meno peggio_ machiavellico. Anch'egli era un dialettico disputativo, sempre pronto ad arringare l'infinito, ma inetto dinnanzi alla realtà positiva delle cose. Mentre appostava un topo, si indugiava a filosofare sul _come_ e sul _perchè_, e quando si decideva, il topo era scappato. Nessuna maraviglia dunque se a furia di strologare il mio povero Arlecchino sia andato a finire nella tagliola tesa per la faina. Ma tornando al nostro autore, mi duole constatare che egli in psicologia mi sembra un ritardatario della vecchia scuola, in arretrato di un secolo. Vedrete, per dare un piccolo saggio, come egli abbia bistrattato la psicologia dei gatti in generale, e la mia figura morale in particolare. Egli ignora affatto il nostro _rinascimento_ ossia l'evoluzione compiutasi nell'etica gattesca, procedente di pari passo con la marcia ascensionale dell'umano progresso. L'autore vede nei nostri congressi politici e civili, nei nostri convegni galanti, le tregende e le stregonerie del _Noce di Benevento_, mentre noi in politica siamo perfettamente agnostici, in civile siamo egocentrici, positivisti, sempre pronti ad arraffare una polpetta, ed a spazzare i piatti in nome del nostro diritto civile, senza darci l'aria di operare per il bene della patria e dell'umanità, come fanno i vostri omenoni che amano le polpette e spazzano i piatti come noi. Noi gatti evoluti educati ai semplicismi del materialismo storico, abbiamo ridotto a tre, come la virtù teologali gli _imperativi categorici_ della vita: Mangiare. Dormire. Fare l'amore. Ai quali, per le intemperanze culinarie e bibitorie degli uomini dei tempi nuovi, bisognerà aggiungere l'imperativo igienico delle acque minerali e dei sali purgativi, per ridonare la serenità spirituale all'intestino retto. Dall'alto della specola lillipuziana del suo balcone, l'autore prende la misura dell'universo come il _grande pescatore di Chiaravalle_, snaturando in un iperbolico travaso di traveggole sentimentali le verità elementari semplici e tangibili della storia naturale. Vedrà il lettore come dal minuscolo episodio di un passero, questo mio collega, sia riuscito a trarre, direi a creare dall'inesistente, un microcosmo fantasmagorico degno di un _confinario_, ossia di un candidato della demenza. Con quelle allucinazioni, si potrebbe trarre un poema epico eziandio dalla storia di un verme o di un pidocchio. L'autore col suo passerino infermo, mi sembra addirittura al di là della carta geografica. Cenobita oscuro, senza contatti con la piazza; alieno dai cenacoli, dalle cooperative della _réclame_, egli si mantiene personale, individuale come un fungo, refrattario agli innesti, alle correnti iperboliche che hanno sconvolto e trasformato il tempio dell'arte in un circo, in un _turf_ internazionale di olimpionici, in gara alla cuccia del vello d'oro: ossia a chi le spara più grosse. Egli non è sindacato, vive solitario come il grillo del focolare, ignaro affatto che al tempo nostro le maggiori produzioni dell'arte sono la risultante della mutualità collettiva, che anche l'arte si è industrializzata in virtù di consorzi, di società anonime, di agenzie che assumono in appalto la creazione dei capolavori concertati. Cioè morbisciature svenevoli che danno il brivido dell'ignoto alle animule educande in aspettazione; o stravaganze super-estetiche e galeottiche di epilessia erotica e cocainomane, per mandare in gattafrègola le Diane e le Circi moderne, le eleganti comari ed i gallastroni della nuova _elite_, abusati e sazii degli usuali massaggi. Oppure grandiosi _bluff_ di vastità titanica, concepiti in uno spasimo di elefantiasi artistico-industriale, opere mastodontiche che non istanno nemmeno nei grandi anfiteatri romani, e costringono i teatri massimi ad allargare i fianchi per ricettarle. Tornando al nostro autore, in quale categoria fra gli animali dell'arca di Noè dell'arte, potremo classificare questo fringuello disperso, senza il _super bum bum_ della _réclame_, senza appaltatori, senza il compiacente e reciproco commerage _dei cenacoli intellettuali_? Con queste attitudini negative e ritrose, egli mi sembra nato e fatto per rappresentare il buco nella ciambella dell'arte, e da ciò è facile imaginare in quale voragine di silenzio andrà sommerso il nostro minuscolo autore col _frin-frin_ del suo ghitarrino. * * * * * Ma che monta? anche i ritardatari hanno ragione di vivere a modo loro, e di aggiungere il loro zero al nulla metafisico delle cose umane, rispetto all'universo. Gli usignoli, le passere solitarie, i merli ed i cuculi, sono canori per loro conto, e godono del loro isolamento: «_l'uomo_, disse un saggio, _non insegue che delle chimere_» e la chimera del nostro autore vale quella degli altri che riempiono il mondo dei loro clamori. Se egli non è intonato coi tempi, è intonato con la natura, locchè vale e soddisfa assai più; ed io che lo so per esperienza, ve lo assicuro in parola d'onore da gatto superiore e filosofo ipercritico. Egli con un lembo di cielo, con un volo di balestrucci, con una farfalla, con un congresso gattesco, con un corale di grilli e di ranocchi, con una ragnatela, o una coda di lucertola, riesce a costruirsi un mondo, un tripudio intimo di colori, e vive in sanità animale e spirituale. Beato lui! In questo egli si avvicina alla nostra filosofia gattesca. Psicologicamente egli è più gatto che cane, il quale è un parassita cortigiano senza dignità, strisciante e minchione, sempre disposto a menare la coda anche se lo pigliano a pedate. Beato lui!--ripeto e concludo.--Chiuso in un cerchio di silenzio ermetico, così che se non fosse per l'amichevole deferenza della Casa Barion non troverebbe più un gatto per pubblicare le sue fantasie: pur tuttavia egli tira innanzi serenamente, e canta per se, per un istinto canoro, come i cuculi e i merli suddetti, e di niente si duole. E sto certo che se gli domandaste delle sue commedie, dei suoi studi, dei suoi romanzi dispersi nell'oblio, egli potrebbe dire come quel tale che richiesto della salute dei suoi parenti, rispose: _Tutti morti!... ma io sto benissimo!_ CODAROSSA _gatto impiegato civile._ Alza Novarese, 1924. VIA LEONARDI. Il mio balcone monumentale, con balaustra massiccia di finto granito, si libra a pieno strabalzo come un enorme pulpito sulla sottostante Contrada dei Gatti. VIA LEONARDI, è scritto sulla cantonata, ma pur sempre «Contrada dei Gatti», nell'uso dei buoni cittadini di Villalbana, i quali vivono tranquilli e digeriscono benissimo, anche ignorando che sia mai esistito il loro illustre concittadino, il celebre «Leonardi» giureconsulto, umanista e latinista insigne del secolo XVII. Anni addietro per iniziativa di alcuni magnati intellettuali, costituiti in comitato, si era solennemente celebrato il centenario dell'illustre uomo, con festeggiamenti, intervento di notabilità indigene e forestiere, vermout d'onore, scoprimento e inaugurazione della lapide, con relativa dottissima orazione vociata dal preside del liceo, ansante e stronfiante sopra un tavolo drappeggiato, e sotto la vampa torrida del sole di luglio. Lo vedo ancora l'oratore agitantesi al biscanto della strada, torreggiante dal suo trespolo sulla folla pigiata degli spettatori. Lo vedo ancora, e lo sento: «Villalbanesi! Il decreto consulare che consacra questa via al nostro grande concittadino, al grande Leonardi, traduce in atto e consegna con cifre lapidee alla storia il più fervido voto dei nostri cuori! Memori di voi i figli vostri, e i tardi nipoti, si inchineranno riverenti al nome del grande cittadino onore di questa terra a nessuna seconda per tradizioni di gentilezza, di coltura e di vibrante patriottismo. «Viva Leonardi! Viva Villalbana! Viva l'Italia viva il Re!» Applausi--musica e congratulazioni--e via tutti. La lapide è lì sulla cantonata, la vedo di sbieco dal mio balcone pelasgico, nessuno di quei magnati è più venuto a farle visita, e nemmeno i posteri riverenti e memori si accorgono che ci sia. La strada è sempre deserta, soltanto i gatti del dintorno, i quali per tradizione secolare tengono congresso notturno nel giardino del municipio, e non mancano mai al convegno. E così, malgrado la solennità centenaria, l'orazione del preside, e le targhe cantonali, via Leonardi è pur sempre la _Contrada dei Gatti_, talchè il mio portiere, un reduce africano che conosce le vie e le callaie di Massaua e dell'Asmara, non è ancora ben persuaso che il suo portone sbocchi in via Leonardi. Che più? Lo stesso preside del liceo, autore del panegirico «pro Leonardi», ricordando anni dopo la celebrazione centenaria, venne a dire: _quando abbiamo inaugurato la lapide della contrada dei gatti!..._ Dunque chiamiamola così. IL BUON DIAVOLO ZOPPO. Una disgraziata distorsione del piede sinistro messo in fallo, mi tiene prigioniero in casa. Dieci giorni di gamba a letto, costretto all'immobilità, vesciche di ghiaccio al malleolo, poi stecche e bendaggio, ed eccomi come un invalido in giro per le camere, alpinista ciabattone con tanto di alpenstok, in pantofole e mortalmente seccato di questa vita da recluso. Eppure, fuori da quel letto, attutita la doglia, mi par già di essere in paradiso! Proprio vera la legge darviniana dell'adattamento, come è vero che la solitudine mena alla filosofia. Non ho letto mai _De consolatione philosophia_ di Boezio, ma conosco e ricordo come un miserere lontano le _Consolazioni solitarie_ di Zimmermann, e il trattato della solitudine di Mendelsson, meditazioni squallide di trappisti mentre si scavano la fossa con le loro mani, biascicando salmodie da funerale. Meglio Rabelais che conosco ad occhio e croce, lo confesso, ma lo cito come fanno i molti che lo ignorano affatto, perchè è convenuto, dicendo Rabelais, s'intende allegria. E similmente si dice: «I SETTE SAVI, LE NOVE MUSE», senza sapere chi furon quei signori e quelle signore: si dice per iperbole «l'ottava meraviglia» senza ricordare le altre sette, come si praticano magari tutti i peccati mortali, senza saperli noverare. Ah il mio balcone ostrogoto, specola aerea librata sulla via Leonardi, ossia contrada dei gatti, vale più di tutte le biblioteche. La prima volta che mi son potuto trascinare fin qui, prendendo possesso del mio seggiolone, ho rinunciato ai libri per ammirare, e godermi questo lembo di vita varia, infinita, che ferve e vibra per ogni dove, nell'aria e in terra. La natura è tutta un prisma incantevole di bellezza e di meraviglie. Guardatela col telescopio nella sua incommensurabile grandiosità siderale, studiatela al microscopio nel suo pulviscolo in perenne travaglio di creazione; osservate da una fessura, da un pertugio un palmo di terra, un lembo di ciclo, e vi domanderete sgomenti a che miseria infinitesimale scendono al paragone i poemi, i monumenti, le pitture, le statue e tutte le creazioni e le opere morte dell'uomo. Meglio non pensarci su per non smarrire nella vertigine paurosa la sinderesi, ossia quel barlume di coscienza che rischiara la nostra nullità. Scendiamo dunque dalle nuvole, chè tanto con questo piede zoppo e l'intelletto idem, è inutile prendere il volo. Dicevamo dunque: Contrada dei Gatti: il mio balcone teutonico quasi a cavaliere sulla via; vedo a sinistra il fondo della piazza del mercato; difronte il giardino municipale, un vasto rettangolo con viale alberato, rabescato di ornati e ghirigori di verzure, trapunto di cestoni di tuie, di rosoni e pennacchi fioriti, e fasciato da siepi di mortella. Veduto dall'alto sembra un copripiedi ricamato, o meglio una grande focaccia bigherata a disegni estrosi da pasticciere. Il giardino fronteggia il palazzo comunale, antico convento dei domenicani, rifatto e scialbato alla moderna, ma non così da cancellare l'antica impronta fratesca. Certe finestre all'ultimo piano sembrano bocche di monaci sbadiglianti nell'uggia della tristezza claustrale; una finestrella ogivale mezzo murata, pare l'occhio arcigno e lipposo di un frate guercio: la torretta dell'orologio serba ancora un cocuzzolo che ricorda il berretto rigido e truce di un padre inquisitore. A destra facente lato al giardino, un muraglione aspro e cupo, avanzo di un antico palazzo feudale, rabberciato e manomesso scelleratamente alla moderna dal lato che svolta in Contrada dei Gatti, con appiccicature mingherline ed alveari, ossia, alloggi civili, forati nei fianchi poderosi del vetusto edificio. Il mastio che tiene il giardino, è tuttavia forte e nero di secoli: scende giù a scarpa sulle zolle di insalata coltivate dal custode municipale. Due enormi barbacani si addossano al muro, come protesi nello sforzo di respingere le minuscole rabberciature moderne di corniciette, finestruccole, e dei ridicoli balconcini, i quali al paragone del frammento antico, sembrano beverini per i passerotti. LA TORRE. Imponente masso medioevale, la Torre si erge e grandeggia, invitta e poderosa, schiacciando sotto la sua mole titanica i rabberci architettonici e le cianfrusaglie edilizie appiccicate al suo troncone vetusto. Ella piomba giù diritta nel suo fusto ottagonale, enorme cavicchio piantato sul bulicame di casuccie e di catapecchie abbarbicate al suo piede. La parte superiore si allarga e ingrossa a testa di carciofo; otto finestre bifore orlate di fregi in terra cotta, qualcuna cieca, murata dal lato di mezzanotte; un coperchio a travata al sommo, a tese larghe spioventi, un cappellone brigantesco, alquanto sgangherato, ma piantato sodo con gesto di fiero cipiglio come a dire: guard'a voi. Niente a ribattere, il colosso sovrasta, impera e comanda per tutto il raggio del suo orizzonte. Il campanile di S. Vincenzo, tozzo, quadrato con la piramide aguzza e squamosa del suo coperchio a smoccolatoio, guarda, traguarda timidamente di là dal letto del palazzo municipale, e basisce al paragone del gigante feudale, malgrado la sua punta aguzza, e le nidiate dei gheppi e civettoni che nidificano nei suoi buchi e nelle sue crepe. E come potrebbe competere quel rigido fuso gotico lombardo con la tenerezza dei suoi colonnini smilzi, i suoi fregi minuti, lasagnati di ghirigori anemici, come competere col masso titanico della Torre, eretto nello spazio come un torvo Polifemo superstite, dimenticato nel tempo? Così al paragone, l'una e l'altra mole esprimono ancora attraverso ai secoli lo spirito diverso e l'antitesi delle istituzioni che rappresentavano nella storia: la chiesa e la signoria: guelfi e ghibellini. Il campanile di S. Vincenzo con le sue minutaglie decorative nella sua compostezza bizantina e aguzza, sente la rigidezza dogmatica della scolastica, gli intrighi claustrali, le accortezze, i misteri della sacristia e la pervicacia fredda, inesorabile della curia. La Torre Ghibellina invece, si erge superba, maestosa, dominatrice possente, formidabile come l'impero. La chiesa e l'impero, il campanile e la torre, denti canini e denti molari delle enormi zanne medioevali che maciullavano il misero armento umano; l'uno e l'altro simboli superstiti, ombre spettrali di un mondo che non è più. L'orditura interna del palazzo feudale, è rimasta quasi intatta come era al suo tempo. Nel vestibolo basso ombrato, sorretto da un colonnato forte e tozzo, sembra che ancora sonnecchino gli scherani fasciati di lorica e di ferraglie, barbigiati come draghi. Anfratti bui; porte inchiavardate da chiavistelli rugginosi, scalette scure e tortuose che guizzano giù nei sotterranei inesplorati da chissà quando, sui quali circolano nel volgo leggende paurose. Su per lo scalone, ampio massiccio a rampe dure e ripide, per un corridoio stretto e oscuro, si sbuca nella grande aula del consiglio, ora adibita a sede della corte d'assise. Di fronte, a pochi passi sulla via che incrocia con la Contrada dei Gatti, ancora un frammento vivo di medioevo, il monastero di Santa Chiara, vasto alveare di monache e di novizze, vivaio di giovani creature inconscie o inferme che rinnegano la vita, il sangue, boccheggiando con l'anima volta all'insù, come le palette delle gelosie che sbarrano le finestrelle del chiostro. Strano linguaggio quello delle gelosie! Tutto il travaglioso dualismo della vita balestrata fra lo spirito e la materia, fra l'ideale veleggiarne nei cieli, e la realtà inesorabile, stridente, si riassume nell'orientamento delle gelosie. Palette in su, l'essere anelante alle idealità, al sacrificio, all'esaltazione: lo strazio delle allucinazioni, le estasi azzurre delle anime volte ai miraggi spirituali... raggio di cielo. Palette in giù, tutto il vaso di Pandora rovesciato sulla plebaglia razzolante nel brago delle basse cupidiglie: la strada, il brusìo del volgo, il rigagnolo, il guazzo, il pantano, la lotta degli egoismi e degli istinti inferiori; la malizia, le imposture, gli odii, gli amori, le passioni divoranti, la vita bruta animalesca nella sua vile fermentazione. Fiamma d'inferno! Il vetusto torrione Ghibellino impera tuttavia con gesto epico così sul masso cellulare di Santa Chiara come sul pinnacolo aguzzo di San Vincenzo, aduggiando nell'ampia tesa della sua visiera quei detriti ritardatari del mondo antico, che ebbero con lui trionfi e ruine nelle vicende del tempo, e soggiacquero allo stesso fato. A dare una guardata rapida attraverso ai secoli e la storia, chi ha ragione? Vivevano forse meglio o peggio le genti ignare aggiogate come armento sotto l'ombra del campanile e la férula del barbassore? Vivevano più tranquilli i deboli, i derelitti, le anime delicate e timide, le verginelle pavide che cercavano rifugio e pace nella solitudine dei chiostri? Quali furono e sono le migliori istituzioni civili e religiose rispetto ai bisogni sociali e spirituali? Guardo in aria, frugo nei ricordi della storia, e penso che la ragione di essere più che degli uomini, sia dalla parte delle bestie che vivono senza filosofare e legiferare, e vanno senza impacci dietro alla natura rimettendosi alla provvidenza. I colombi che nidificano da tempo immemorabile nei buchi del palazzo municipale; i gattoni che tengono notturni conciliaboli nel giardino, i gheppi e le civette che da secoli si perpetuano nel campanile di San Vincenzo; i passeri e stornelli che pullulano a nembi nel testone della torre feudale; tutta insomma la vita alata e strisciante svolgentesi nel trionfo primaverile intorno al mio balcone, è un poema di meraviglie, un inno alla diva natura, che irride e sfata le architetture sociali antiche e moderne: la spada, la stola, la toga, ossia sangue, martirio, tirannide, persecuzione, sopraffazione e violenza, codici, diplomi, pergamene e carta bollata. L'ALA. L'ala! l'ebbrezza olimpica del volo che inspirò al genio aligero di Michelet un inno sfolgorante come una girandola di stelle. Vogare, veleggiare, immergersi nel profondo cobalto del cielo, volteggiare, saettare con grandiose spirali nella carezza azzurra e tenue dell'aere sereno, nella gloria del sole, o fendere il nembo procelloso dell'aquilone, tuffarsi, guizzare con rapidi volteggi nel mare torbido delle nubi, nel chiurlo sinistro del vento, smarrirsi come un gabbiano delirante nell'acre voluttà di sparire nell'infinito! Chi mai può esprimere l'estasi, il trionfo del volo? Come raggiungere con lo stento della parola il poema etereo svolgentesi nel silenzio dei cieli, dall'aluccia trepida del passerotto ai primi voli, alla sfiondata fulminea e regale dell'aquila? Le così dette «ascensioni umane» le conquiste millenarie della scienza che fruga e indaga tutto l'universo dalla meccanica celeste alla bacteriologia, dal pulviscolo cosmico delle nebulose, alla clorofilina del sangue tengono forse il paragone con le ebbrezze vertiginose dell'ala? E questo moto perpetuo che ci sospinge, ci turbina nell'ignoto, fra due parentesi di _infinito_, e si chiama progresso, sarà per i miseri mortali una ascensione verso la felicità? Tu forse o vetusta torre che hai la testa vespigliante di passeri e stornelli, tu che da secoli assisti alle feste primaverili dei tuoi piccoli inquilini, e presiedi e proteggi nelle tue vecchie grinze di nonna i loro amori, le loro nozze e le loro nidiate; tu che hai veduto gli uomini dei tempi remoti, le loro miserie, le loro sciagure, e vedi noi brancolanti nei nostri diuturni affanni: tu che hai vissuto secoli di storia, potresti forse pronunciare il grave responso sui destini di questa inquieta marmaglia che si chiama «Umanità». Tu hai veduto le genti antiche sbalestrate, sommerse nei flutti della barbarie medioevale, i disastri, le guerre, gli eccidi e le catastrofi; hai veduto i barbassori prepotenti e feroci, gli scherani sanguinari dai ceffi di giudei torturare con rapine stupri, ferro e fuoco il misero armento umano. Hai veduto gli orrori del fanatismo implacabile, le flagellazioni, le torture e la vampa maledetta dei roghi. Ora vedi, la libertà, l'uguaglianza e l'umanità dei nuovi ordinamenti civili; l'evoluzione, il progresso: ossia in luogo del vescovo, del barbassore, dell'inquisitore, il Comune, il Sindaco, la Giunta municipale, la signoria democratica, costituita di professionisti, industriali, bottegai, tutte le categorie sociali fiorite in libero reggimento; liberi cittadini insomma, i quali ai tuoi tempi, si chiamavano senz'altro rigattieri, volgo, plebaglia, e via dicendo. Gli interessi sociali sono ora affidati a uomini pratici, positivi, investiti della sovranità popolare, i quali al suono del campanone del Comune, lasciano l'esercizio, ossia lo studio, la bottega, l'officina, il banco, la pizzicheria, e vanno come niente fosse a legiferare nello stesso palazzo che fu sede e tribunale del Santo Ufficio. E non basta--sbrigati gli affari consiliari, gli stessi cittadini esercenti, trapassando per virtù di magistero democratico dal civile al penale, vengono ad assidersi gravi e pensosi nell'aula magna del tuo palazzo feudale, lì dove un tempo troneggiava il tuo Signore coi suoi lambardi, e in veste di Giurati, vagliando le ragioni dei delitti e delle pene, giudicano e mandano in galera i delinquenti. Che ne dici torre di questi voli iperbolici? Tu sogni forse ancora al tuo vecchio mondo, e indurata a tante vicende ineffabilmente sconclusionate, assisti scetticamente indifferente e impassibile a questi grandiosi rivolgimenti. Ah bada o torre, chè dalle conquiste progressive dell'etica nuova, potrebbe scaturire una più radicale riforma giacobina, livellatrice eziandio delle disuguaglianze architettoniche, e vederti condannata alla decapitazione per decreto consulare, per non dar ombra alla collettività dei comignoli insofferenti della tua protervia aristocratica. E grazie ancora se, per un ricorso storico di gusto antico, non avverrà di vederti stroncata per modo che due di voi, possiate appena uguagliare l'altezza di un fumaiolo, come al tempo di Giano della Bella ci volevano due patrizi per costituire l'equipollenza giuridica di un artigiano. Che ne dici o torre? IL PASSERO. Risponde in sua vece il passerotto, che ho qui presso nella gabbia, con un cirip ostinato che non afferma e non nega, ma porta via la testa. È mio prigioniero da otto giorni; un novello ancora inesperto al volo, caduto dalla torre ai miei piedi, proprio il primo giorno che mi son potuto trascinare al balcone. Starnazzò frullando nel vuoto, e si abbattè come morto presso le mie pantofole. Nell'aria corse un grido lacerante, e una passera calò fulminea, soffermandosi sulla balaustra, guardandomi, convulsa e smaniosa. Raccolsi il piccino boccheggiante, e la passera con un garguglio concitato e rabbioso, volò sul comignolo di fronte, e stette in vedetta ansiosa, cinguettando chissà quali invettive al mio indirizzo. La madre! Poveretta, chissà che spasimo in quell'animula fremente! Peccato non poterle dire nel suo stesso linguaggio: stai pur tranquilla curerò io il tuo piccino. Non era morto, ma tramortito dal ciacche secco battuto sulla lastra di granito; lo scaldai, lo avvolsi nella bambagia e lo misi in una gabbiola appesa al balcone, perchè la passera potesse vederlo a suo bell'agio. E così adesso, siamo in tre a tenerci compagnia; io e il piccirino sul balcone, e la passera sul comignolo, sempre in sentinella, dalla punta del giorno fino a sera tarda, quando già frullano le nottole sul giardino, e gli assiuoli del campanile di San Vincenzo incominciano la ronda notturna. Siamo in pieno maggio, il passerotto è dunque della prima covata: il maschio papà se ne sarà andato, o forse chissà, avrà da fare con gli altri rampolli della nidiata; ma la passera, la mamma, non abbandona il prigioniero, su e giù tutto il santo giorno, or sul tetto, or sul comignolo, ed ormai anche in mia presenza si arrischia fino alla cornice del balcone: ma quante prove, quanto andare e venire e sospensioni indecise di volo prima di fidarsi! Il prigioniero si è presto rimesso; non ha che un'ala sgualcita, del resto sta benone: appena guarito lo restituirò alla sua mamma che poveretta, lo aspetta senza requie. Mi costa poco per mantenerlo, ci pensa lei alle provviste: è un poema commovente di maternità in atto. A sera ritiro la gabbiola, le notti sono ancora fredde, e sul balcone tira un venticello troppo vivo per il mio piccolo infermo. Ma al mattino ai primi scialbori dell'alba, ecco la passera che salterella sul balcone, già pronta con una farfalla nel becco per la colazione del piccino, e chiama, chiama con voce gozzuta a becco chiuso, perchè non isfugga la preda. Faccio mettere fuori la gabbiola, e immediatamente dal mio letto sento il dialogo tra madre e figlio, gemiti e gorgheggi sommessi, morbidi e pieni di tenerezza di lei, e risposte secche concitate e scontente del prigioniero irritato ed impaziente. E quando più tardi vengo ad assidermi qui sul mio seggiolone, il passerotto rimpinzito, fa la piva, ha il gozzo turgido ripieno di pastura, e ancora una strage di farfalle e di insetti morti o malvivi sparpagliati nel fondo della gabbia. IL RAGNO O LA MOSCA? Da qualche giorno sono più mattiniero: il balcone mi attrae con le sue varietà. L'accidente che mi sequestra in casa, il male sofferto, la solitudine, le lunghe notti insonni e meditative, hanno affinato la mia psiche, acuito la sensibilità, dilatato i confini della mia comprensione. Ora vedo, sento, osservo un mondo di cose che prima sfuggivano alla riflessione: mi avvedo di essermi più accostato alla realtà della vita, e di penetrare più a fondo nel sentimento della natura. Un palmo di giardino, un lembo di azzurro, il viavai della strada, la torre, i gatti, i passeri, tutto infine il breve orizzonte della mia specola, mi scopre un mondo, un microcosmo ricco di curiose e sorprendenti varietà, e di attraenti meditazioni. Nello stato normale di salute e di libertà nel _trin-tran_ monotono e consueto della vita, quante cose, quante sensazioni gradevoli e delicate sfumature passano inavvertite e si disperdono nel badanai delle vicende insipide e tediose che riempiono le nostre giornate! Quante maraviglie, quante sfumature deliziose, quanti soavi effluvi e bellezze misteriose, e scintillii di luci, si sprigionano dal superbo scrigno della natura, sfuggenti all'occhio nostro intorpidito dal fumigio plumbeo delle cose comuni! «Non è cosa abbastanza meditata, dice Tommaso Carlyle, come non cade una foglia che non sia porzione indissolubile dei sistemi solari e siderei». Ah questi testoni trascendentali che intendono il ronzìo di un insetto, il gesto di un uccellino, le tragiche catastrofi della storia e le commedie divine, hanno negli occhi della mente il microscopio, il telescopio: l'analisi e la sintesi dell'universo. Condensatori voltaici dello spirito universale, essi suggono il midollo delle biblioteche, sfondano gli archivi della storia e della creazione e librandosi sui volghi procedenti col muso atterrato, raggiano come fari di orientamento nel caotico ed oscuro travaglio dell'umanità. A noi invece scribacchini rampicanti, nutriti di saccenteria posticcia, e di spazzature enciclopediche, la biblioteca col suo arido casellario catalogato, ci impania come insetti nella ragna, e ne usciamo accapponati, con l'anima inamidata che ha perduto la freschezza dei contatti con la realtà: anima secca, frolla, morbisciata che pena al sole, vivente in perenne divorzio dalla natura. Non leggo neanche più i giornali: che storie son quelle? echi monotoni di un mondo sciatto e frigido che si agita nel nulla! Mi svaga e mi attrae assai più il piccolo ragno che iersera tesseva la raggiera geometrica del suo _esercizio_, fra il tubo della grondaia e il vaso di begonia che ho sul balcone. Strano geometra questo minuscolo insetto! Come mai gli riuscì di spostarsi contro la legge di gravità, così da poter gettare un filo orizzontale dal tubo della gronda alla pianticella? E che magistero di tessitura! stamane era già bell'e fatta la raggiera palpitante all'aria; un soffio aereo di tessuto rifrangente in un'aureola i colori dell'arcobaleno, e la bestiolina trionfante al centro. La lotta per la vita, le piccole meraviglie della creazione, sfuggenti alle facoltà più intuitive del nostro raziocinio. Tutto il tempo che sto fuori, mai una mosca, non un insetto cade nella pania: povera ragnetta, senza mamma, e senza colazione, come può vivere? Tanto lavoro per mettere in regola il suo botteghino, e poi mancano i clienti, mentre invece questo piccirino della gabbiola che acciocchisce col suo ostinato e trafiggente cip cip, ha due fornitori per la sua dispensa, io e la passera. Mi viene la tentazione di acchiappare una mosca per offrirla alla ragnetta, ma non so risolvermi per uno scrupolo sentimentale. È giusto, è umano immolare un'esistenza per giovare ad un'altra? Faccio bene o faccio male?... e resto indeciso con la mano levata, pensando al dubbio espresso dal divino Michelangelo che non sapeva decidere _se sia meglio il mal che giova, o il ben che nuoce_. Eppure la prima mosca che vidi dibattersi impaniata nella ragnatela mi destò un senso di pietà: un secreto impulso mi spingeva a liberare la povera vittima. Come secondo le circostanze si capovolgono i criteri del giusto e dell'ingiusto! Ieri tutta la compassione per la ragnetta, oggi tutta la misericordia per la mosca! Chi ha più ragione di vivere secondo l'ordine della morale? la mosca o il ragno? La contraddizione è nella natura che fece l'uno per divorare l'altro, senza preoccuparsi della giustizia. E allora? Oh Dio buono, neanche nelle minuscole cose l'uomo può operare il bene assoluto. Ecco un piccolo quesito di morale che resta insoluto, un bacillo critico che intacca la dinamica dei filosofi positivi, e la teologia trascendentale di San Tomaso d'Aquino. La mosca o il ragno? questa è la quistione. È più nel vero Ernesto Renan dicendo che la natura ci porge esempio della più fredda insensibilità, e della più patente immoralità. E intanto che io sto strologando sul bene e sul male, il ragno ha risolto la quistione, e sta mangiando la mosca. CODAROSSA. Iersera a tramonto nel giardino municipale, sotto la magnolia tutta bianca in fiore, protesa all'aria come un'offerta votiva, si svolgeva un georgico e soave idillio. Una passera bionda, affusolata, attillata, frizzante di amore, civettava col suo damo, un bulo di maschietto ardito, testa eretta, cappuccio castagno bruno, gorgiera candida, pettorina nera: becco forte di ebano. La passera saltabeccava leziosa fra le aiuole, fuggendo ritrosa e invitante ad un tempo, e l'amico sempre dietro a salterelli nervosi, con le ali trepide, cascanti, cacciandola con voli brevi e flosci, e giravolte di galanteria. Ad un tratto da un fitto cestone di ortensie, sbuca ratto come folgore Codarossa, il gattone del portinaio, e in un zàffete ghermisce al volo la passerina, e se la porta via. Che grido lacerante, che gazzuglio disperato mandò il maschietto a quello schianto brutale! Incurante del rischio, si avventa eroicamente in convulsione furiosa dietro al malandrino; ma Codarossa implacabile, strizzando via come faina, si tuffò e sparì con la preda gemente, nel nero speco del sotterraneo, lasciando l'alato Romeo nella desolazione del suo idillio così tragicamente stroncato. Codarossa per me è un delinquente degno di essere fucilato nella schiena o da qualunque parte, e nondimeno io resto perplesso se considero che egli delinque secondo la sua natura. E per distrarmi rifletto: lassù sotto il cappellone della torre, in quella polpa viva di nidiate pullulanti negli anfratti del soffitto, quanti agguati, quanti terrori, quante tragedie insidiano e gettano in iscompiglio gli alati inquilini! Quante volte nella notte alta e silente, al tenue luciore delle stelle ho veduto roteare con volo subdolo e sinistro l'assiuolo famelico, penetrare e sparire nel nero del coperchio, e uscirne dopo un attimo, e dileguare nell'aria, strozzando nel rostro grifagno l'ultimo gemito disperato della vittima divelta nel sonno dal suo nido d'amore! Oh avere uno schioppo, un dardo, una saetta per fulminare il feroce predone! E quand'anche, è giusta quella collera? Non hanno forse anch'essi i gufi, i gheppi, le poiane, il diritto di vivere? Non hanno pur essi là sul campanile aguzzo di San Vincenzo le loro nidiate, i loro rampolli da sfamare? Da qual parte è il male? Il gattone Codarossa del portinaio municipale, sì che è un delinquente malvagio senza necessità. Egli è scapolo, se la spassa a spese del comune, ha le cantine e i sotterranei pullulanti di topi, e preferisce fare il dilettante carnefice per puro sport, per lo stesso gusto selvaggio che manda a caccia i signori del buon tempo, i quali, come lui, non hanno mai letto la formidabile requisitoria di Tolstoi contro i piaceri viziosi. LE VITTIME. Ancora. Il mio bel ragno giorno per giorno si arrotondava a vista d'occhio nella sua raggiera danzante al sole, rispettato da me, riparato nel suo cantuccio, beato e tranquillo. Quand'ecco un giorno una rondine che lo aveva adocchiato, me lo azzecò in un fulmineo zig zag lasciando la raggiera squarciata e penzolante come gramaglia al vento. E che dire dello scempio indescrivibile di farfalle, dipteri e coleotteri che mena ogni giorno la passera per fornire il mio prigioniero di provvigioni? In quale canone della cosidetta legge morale troveremo la giustificazione di cotali ecatombe? E l'inverno coi suoi rigori e il suo coltrone di nevicate, quale strage immane e crudele di vittime innocenti immolate senza una ragione accessibile al nostro intendimento! Gli stornelli, le rondini, i balestrucci e i rondoni, come i signori che vanno in campagna, emigrano ai primi brividi di freddo in Egitto, in Siria, nelle regioni del caldo; ma i poveri passerotti proletarii, rimangono e soccombono a nembi di milioni e milioni per il gelo, per la fame, e per l'immane strage che ne menano gli uccellatori ingordi. È una pietà vederli acquattati sotto i tegoli, sopra le gronde, fra i pizzi e le stalattiti fantastiche del calaverno, mentre la neve scende lenta incessante implacabile, seppellendo ogni cosa nel suo gelido coltrone. Addio! Non più un punto scoperto per ficcarvi il becco: più nulla, non un insetto; non una briciola. Le misere bestiole se ne stanno appollajate tutto il dì, guardando tristamente in giù or con un occhio or con l'altro, finchè viene la sera, la notte, il gelo trafiggente che spacca gli alberi e le pietre. Si rifugiano mogi, avviliti, sgomenti nei loro buchi sotto i tetti, digiuni, sfiniti, tremanti sulle gambine filiformi irrigidite, e periscono lentamente assiderati, pigolando un ultimo e flebile cirip, che in sua favella chiederà forse alla natura matrigna il perchè di quell'inutile e crudele martirio. Lo scorso inverno la neve fece un massacro, una clade di passeri nel circuito della torre: la nevicata incessante di una nottata, ne spazzò via di un tratto la maggior parte bloccandoli seppellendoli ancor vivi nei loro rifugi, sotto una valanga di neve che fiaccava i tetti. Nè i superstiti che poterono fuggire all'anticipata sepoltura, ebbero miglior sorte: affamati, disorientati, starnazzavano con volo breve e pavido dalle gronde ai cornicioni, affondando nei batuffoli candidi, finchè stremati dal digiuno, rattrappiti dal gelo, cascavano giù come foglie secche, e morivano boccheggiando sulla neve. Nel mio cortile i passerotti stazionavano in giro sotto la grande ala dei tetti spioventi, ustolando con gli occhietti avidi di lamina sui depositi delle spazzature, senza mai osare di accostarsi. Nessuno tra i tanti inquilini aveva il pietoso pensiero di gettare qualche bruscolo ai piccoli derelitti, non ci si bada, sembra una puerilità disdicevole alla gente seria. Da parte mia provvedevo alla meglio; il mio ballatoio verso la cucina era sempre ben fornito di briciolature di pane, ma i passeri sono troppo diffidenti, esposti nei giorni brumosi a ogni sorta di insidie, cacciati, perseguitati dai monelli, non si arrischiano se non quando sono ridotti all'estremo. Si apportavano sul tetto basso della rimessa proprio di fronte alla mia cucina, e stavano tutto il giorno con gli zampini nella neve a guardare, contemplare, sospirare e non osare mai. E quando finalmente, esausti, straziati cominciavano a farsi coraggio e i più arditi si lanciavano sul ballatoio con le ansie di andare al suicidio, ecco che Amleto, il vivace figlioletto del mio vicino dirimpettaio, cavaliere Luciolani ragioniere e perito patentato, Amleto dico, si prendeva il mal gusto di provare sulle misere bestiole languenti la piccola carabina silenziosa regalatagli dal babbo. Polso fermo e colpo sicuro aveva il birichino, e i poveri passerotti presi di mira, si sbandavano in disperata fuga, stupiti forse che un arnese così piccino, avesse in cuore una cattiveria così grande. AMLETO. Non ha che undici anni Amleto, ma benchè fanciullo è già tristo come un uomo: per precoci indizi, farà sicuro carriera nel mondo dei lestofanti senza scrupoli. Bel ragazzo, vigoroso, svelto come un furetto, occhio vivace, inquieto, sempre in attesa, che nel giro di una guardata scopre tutte le novità del cortile e di tutte le finestre. Egli ha latente nell'animo un istinto selvaggio che lo spinge a scompigliare ogni cosa ed a incrudelire senza misericordia contro le bestie di ogni specie. In casa nessuno rileva le sue monellerie sgarbate, se non per compiacersi della sua vivezza. La mamma, la signora Luciolani, dama di rango e _quasi donna_ per origini gentilizie, è sempre in giro per le visite, per consulti con la sarta o la modista, o per il suo patronato delle giovani operaje, e non è in casa, nel suo salotto in stile Luigi XV che nei giorni di ricevimento. Come può badare con tanti impegni al suo vispo frugoletto? Non lo ammonisce mai delle sue frequenti scappatelle, anzi si compiace intimamente dell'irrequietezza spavalda di Amleto, e qualche volta si diverte delle sue trovate allegre, come quella per esempio di infilzare a dozzine le libellule e lanciarle così trafitte e spasimanti al volo. Farfalle, maggiolini, scarabei, guai se gli vengono a tiro! Li azzecca con mano esperta, uno spillone nella schiena, e li conficca così malvivi nei vasi del salotto della mamma. Calci e sassate ai cani, manco a dirlo! sembra nato per quello; e se gli viene alla mano un povero gattino disperso, gli fa passare la quaresima di Galeazzo. Del papà cavaliere Luciolani non si discorre: egli trova affatto naturale che il suo Amleto abbia l'argento vivo addosso--e si capisce, il sangue non è acqua: la robustezza, la bravura, la vivacità birichina, sono prerogative ereditarie di buona razza. Anch'egli cav. Luciolani, ora così grave e rispettabile, anch'egli all'età di Amleto era un piccolo demonietto, ciò non ostante anzi, forse per questo, è riuscito a prendere una posizione onorevole, e farsi un personaggio di considerazione. E cioè: ragioniere fra i primi, se non forse il primo della città e del circondario, perito matricolato e ricercatissimo; cavaliere e consigliere del Comune, liberale ben pensante s'intende e molto innanzi nella fortuna procacciatasi con la sua multipla attività. Al portinaio che si lagnava con lui per una sassata nei vetri del suo stambugio, e per i dispregi che Amleto aveva fatto al suo gattino, rovinandogli una zampetta.--Ah ah!--rispose ridendo il cavaliere Luciolani--tanti guai per un gatto! Non avete altre storie? I marmocchi sani e forti son tutti così! quando io ero dell'età di Amleto, ho legato tre gattini in un mazzo, e li ho buttati nella cloaca! Chiaro pertanto che anche dal lato paterno Amleto era tranquillo nelle sue imprese. C'era in casa la serva, una vecchietta che aveva qualche ascendente sul birichino; ma quanto al rispetto per le bestie, ah! giusto lei, che sgozza i polli e li appende fuori senza badare che siano ben morti, lasciandoli tutta la notte in agonia, starnazzando e gocciando sangue con la testa all'ingiù. Cose barbare che danno pena e scandalo financo a madama Fagioletti, una vecchia pinzocchera meticolosa, ombrosa di tutto, la quale per amore della pulizia, fa abbattere le nidiate che le rondinelle si ostinano a fabbricare sopra le sue finestre, sbaragliandone le covate sotto gli occhi dei genitori che assistono disperati all'eccidio, mandando gridi e sibili che son certo maledizioni. E che bazza, che carnevale quel giorno per Amleto, già in vedetta nel cortile con qualche sozio della stessa risma! Man mano che i rondinini cadono starnazzando in terra, il buio, in agguato li ghermisce lanciandoli a giravolta in aria cantando: _Vola vola rondinina dalla sera alla mattina._ E così, finchè le povere bestiole restano con la ultima botta immobili sul lastricato, allora Amleto che ha dell'estro, inventa l'ultimo strazio torturandole con fiammiferi accesi sotto la pancia. E dire che Amleto sa a memoria la canzone della Vispa Teresa, ed ha nella sua piccola biblioteca il _Cuore_ di Edmondo De Amicis, rilegato in marocchino rosso, regalo della mamma nel suo compleanno. Si è appunto per queste speciali attitudini alla caccia che nella stessa circostanza il babbo Luciolani regalò ad Amleto la carabina Flobert, che abbatte i passerotti senza strepito, e mette cani e gatti in fuga. LA MADRE. Ciò stante si comprende con quali esitanze e cautele venni nella deliberazione di appendere la gabbiola del mio piccolo prigioniero alla veranda del cortile. Come fare altrimenti? come si può più vivere con quel molesto e continuo cip cip che acciocchisce e porta via il discernimento? Dove mai questo bioccolo tutto piume e becco prende tanto fiato per assordare la gente col suo inesorabile e perforante pigolìo? Man mano che egli si rimette in vigoria, si fa più insofferente, iroso e prepotente. Lo manderei tanto volentieri dalla sua mamma che è sempre lì presso tutto il giorno in vedetta, e su e giù senza requie intorno alla gabbiola, ma l'ala contusa del piccino è ancora mal sicura. Liberarlo sarebbe come cacciarlo in gola a Codarossa che già lo ha adocchiato con aria di gnorri nelle sue ispezioni di polizia nel giardino del municipio. Adocchiarlo, non so, che forse dal basso non lo vede, ma lo sente, lo fiuta da lontano come un probabile gibier per i suoi spuntini. Con le più vive raccomandazioni di vigilanza alla donna di casa, metto la gabbiola sulla veranda della cucina, e poco dopo, manco a dirlo la passera chiamata dagli iterati cirip del suo rampollo disgustato forse di quella novità, staziona già sul tegolato della rimessa prospicente, più vicina e più comoda per lei che potrà senza disturbo accostarsi al prigioniero e ciangottare con lui a piacimento. Oh, sentirli quei dialoghetti, e comprenderne il linguaggio, sarebbe una letizia! Il piccino picchia ostinatamente sul suo cirip in varie modulazioni, ora languide or concitate: forse ei dice «portami via» e lei, la madre garguglia sottovoce certi discorsi flautali, certe inflessioni vellutate di tenerezza che sembrano gemiti di un'anima in pena. * * * * * Il mio piede migliora: il medico mi assicura che tutto va bene... ma che ne avrò ancora per una ventina di giorni. Strano, questa notizia non mi ha troppo contrariato: sono ormai abituato a questa vita meditativa. Il tempo è bello, l'aria è profumata dall'atmosfera di effluvi alitati dal giardino, sul leit-motif dominante della magnolia. Così me la passo alla meno peggio, occupando la mia giornata nella varietà di tanti minuscoli e pur interessanti svaghi dei quali non aveva una idea, e impiego le mie ore con filosofica pazienza, fumando, leggiucchiando, fantasticando sulle infinite cose che si svolgono nel raggio del mio orizzonte. Mi feci portare _la vita degli animali_ del Brehm, uno dei grossi volumi è per intero dedicato agli uccelli, e mi rallegro pensando con quanto amore i più insigni filosofi naturalisti da Buffon a Brehm, da Naumann al Lichenstein abbiano sviscerato, illustrato la natura, i costumi delle piccole creature che popolano l'aria, allietano i campi, i giardini, le case, le gronde. E penso al grande Michelet il quale dopo di aver percorso con volo di aquila la storia universale, si _fece uccello_ come disse il Taine per sciogliere un inno di alta poesia e di profonda divinazione alla gloria del passero. E ancora più mi addentro nel diletto di questo piccolo mondo, ricordando che il nostro Spallanzani, scienziato di fama universale, e non meno patentato del mio vicino cavaliere Luciolani, non sdegnò di piegare l'alto intelletto allo studio delle rondinelle, le brune monachelle alate del cielo, scrutandone financo la psicologia con intuizioni divinatorie da par suo. MATTUTINO. Sul finire del maggio le notti si abbreviano rapidamente, ma per me, costretto all'inerzia che mi appisolo tre o quattro volte al giorno tra sedia e poltrona, non vorrei mai vedere l'ora di ritirarmi. Alle prime chiarità antelucane, io sono già desto e presto a sghisciare sul mio quieto balcone, a respirare nel frizzore vivificante dell'aria mattutina, piena dei profumi e dei sapori agresti filtrati ed eterizzati nella frescura notturna. Aria frizzante che sa di aceto, come disse il mio illustre amico, Giovanni Faldella. Dopo tanti anni sciatti e bighelloni vissuti nella monotonia del _malor civile_, ci voleva questa disgraziata stortura del piede per aprirmi gli occhi dell'anima e rivelarmi l'ineffabile bellezza e la maravigliosa poesia del mattino, e l'incanto dell'ora sublime che preannuncia il sorgere del sole. È l'elemento divino in atto che rinnova in ritmo perenne il mistero della creazione. Financo Codarossa ne subisce il fascino, e spesso, appena il giardino schiarisce nel brivido del risveglio mattinale, lo vedo sbucare dal suo giaciglio, e tuffarsi voluttuosamente nei ciuffi delle erbe, e uscirne rorido di rugiada, barbigiato di ragnatele e di pacciame, e darsi, come ebbro a un forsennato _stipple chaise_ attraverso alle siepi. La mondanità nottambula, i _viveurs_ e gli _snob_ del bel mondo, ignorano questo sorriso, questi poemi della natura: essi han creato per i loro spassi l'ironia dei _matinée_ del pomeriggio, ed all'ora divina del mattino, sostituiscono l'ineffabile sbadiglio estetico della così detta _heure du the_. Appena traluce il tenue scialbore antelucano, i galletti e i gallastroni reclusi nelle cantine e nei cortili, si trasmettono a distanza con allegre chicchiriate i messaggi augurali della giornata. Forse l'ultima per alcuni di essi, i quali già segnati dalla sguattera, boccheggieranno al primo sole con la gola tagliata. È ancora bruna l'aria, ma già la rondinella che ha il nido quassù sotto il cornicione, appollajata sui fili del telegrafo, bisbiglia sottovoce un soliloquio melodico: forse una preghiera alla gloria del sole imminente. Nell'aria frizzante fiottano in onde sonore i festosi rintocchi delle campane che si scambiano la salutazione angelica dell'Ave Maria. Il giardino, le case, le vie, sonnecchiano ancora nella penombra grigia: ma lassù nel casco cimbrico della torre, già è sonata la diana, e ferve la vita nel piccolo mondo degli inquilini piumati. La torre piglia la prima zaffata di sole sull'elmo: sotto l'ampia visiera, si illuminano di guizzi e di rilievi le terrecotte che fregiano i frammenti dell'antico cornicione. Giù giù, come uno stillicidio sanguigno, scende e si distende la striscia luminosa, sparpagliandosi fra le grinze e le crepe dell'intonaco sgretolato, e accende di porpora il fregio arcuato delle bifore, le grandi occhiaie della vecchia nonna già desta, eretta e sorridente, nel tripudio di luce che avvolge in una carezza, e riscalda le sue vecchie membra irrigidite dai secoli. In fondo laggiù, oltre il tetto del municipio, la piramide aguzza di San Vincenzo, tutta nel sole, rifrange uno scintillìo tremulo dai detriti vitrei incastonati nel suo cocuzzolo verdastro e squamoso come la scorza di un caimano. I gheppi si sono rintanati al primo spunto del sole: qualche ritardatario veleggia ancor lontano fendendo l'azzurro con ali ferme e larghe, come alabarde smanecchiate lanciate nello spazio. I piccioni del municipio sono già tutti al largo alla pastura per la campagna, o lungo gli acquitrini melmosi. Nel testone ciclopico della torre, freme un'orchestra georgica di cinguettamenti, trilli e sufolate gioconde. Passeri e stornelli hanno fatto la pace, e cantano mattutino in coro. A metà aprile, quando gli stornelli ritornano dalle lontane residenze invernali, i passerotti indigeni scampati alla strage jemale, non vogliono più far luogo ai reduci egiziani e levantini, i quali dopo la scampagnata orientale, arrivano freschi coi loro becchi da me ne infischio, per riprendere i loro alloggiamenti sotto il tetto della torre. Il passero nostrano è democratico, ha gusti semplici popolani, si adatta a tutto, ma ha sull'occhio i gesti, le pose aristocratiche degli stornelli damerini che disertano la torre ed il paese nei giorni tristi dell'inverno, mentre i passeri lottano eroicamente contro la fame e il freddo, e periscono a nembi sepolti dalla neve, sotto il tetto natio, in quei buchi dove hanno aperto il becco la prima volta alla vita. Il passero è patriota fedele, lo stornello ha invece tendenze al vagabondaggio internazionale. E perciò, al primo arrivo dei reduci emigrati, passeri e stornelli si azzuffano accanitamente, si picchiano sui tetti, sulle gronde, ed anche in aria, cascando a grappoli vivi e frementi giù nel giardino. Ma dopo alcuni giorni di battibecchi e di gazzarre, il dissidio si compone, ognuno trova il suo luogo e si arrangia, e tutti insieme, passeri e stornelli, si costituiscono in lega difensiva in solidarietà, contro i falchetti predatori che annidano sul campanile propinquo di San Vincenzo. Appena uno della lega avvista da lungi un gheppio roteante, caccia un sibilo di allarme, e passeri e stornelli in un nembo, si precipitano nel giardino e vi stanno appiattati e quatti finchè è passato il pericolo. STORNELLI. Che morbidezza scivola e vellutata ha il gorgheggio timido, quasi umano, dello stornello! Punta il becco verso il sole e garbuglia, ciangotta sommesso le sue strane ciaramellate: trilli, volate, suoni articolati che sembrano discorsi, monologhi di flauto parlante. Che mai dice con quella grazia? chi lo sa? sono accenti e carezze di ricordanze, forse rimpianti, o sfoghi lirici di un'anima melodica inneggiante alla gioia della vita? L'anno scorso ce n'era uno che parlava davvero come un omino: certo uno scampato dalla gabbia di qualche allevatore che l'avea ammaestrato. Ma che strano linguaggio a zig zag era il suo! _Degaiè--aetzit--zagamit_... chissà, forse parlava l'arabo o l'egizio imparato laggiù. Quest'anno non tornò più: in sua vece, eccone un altro ancor più originale che sufola come gli uomini quando si chiamano, e fa voltare di botto i viandanti affrettati, con le sue sufolate, come sapesse di prendere in giro la gente. Son pigri gli stornelli al paragone dei passeri: quando calano dalla torre, si abbandonano di peso, cascando giù pieni, turgidi, e indolenti; sembrano polpette alate. I passeri al contrario hanno la tarantola addosso, non requiano mai, su e giù tutto il dì, con quel volo frullante nell'indeciso e pur così sicuro, sempre in caccia di lombrici e di insetti nei solchi e nelle siepi del giardino. Il quale ha dei cesti fioriti e dei ciuffi verdi e densi che sarebbero un nido di amore per gli usignoli, se non fosse di Codarossa e della sua brigata gattesca che di notte fanno congressi, giostre, e striazzi nei cespugli. E così, non un trillo canoro del poeta alato nel molle silenzio delle notti lunari, ma gemiti, miagolati, ululati sinistri di stregone in tregenda. * * * * * Il sole ormai altolibrato in trionfo, prende quasi in pieno il rettangolo del giardino tutto in fiore. La magnolia già scioglie al piede la nevicata dei suoi fiori di burro che precedono le foglie: le siepi di mortella squadrate, danno un senso di pena nella loro rigidezza inestetica e quasi dolorante per le inique stroncature dei loro più vigorosi virgulti, amputati dalla ròncola livellatrice del giardiniere geometra. Le aiuole bigherate a ornati da pasticciere, trionfano nella cornice di pratelline e di viole del pensiero, diffondendo note gaie coi cinabri dei gerani; i ciuffi di peonie e di giaggioli disseminati in giro sugli sfondi verdi, sembrano luminarie festive di palloncini. Un pulviscolo di insetti iridati, scintillanti, danza ondeggiando nella rosea zaffata del sole; i passeri in perenne frizzore erotico, occhieggiano sdilinquiti le femmine, rincorrendole a salterelli nervosi, con le ali tremole, abbiosciate, invitandole con ogni sorta di smammolature all'imminente covata. LE SUORE DI SANTA CHIARA. Dieci ore. Vedo a me dirimpetto gli impiegati dello stato civile, nei loro scanni presso le finestre spalancate: hanno già leggiucchiato il giornale, ed ora scribacchiano piegati sul tavolo, fra cataste di carte e di libracci. Tutta la vita cittadina è casellata protocollata in numeri di matricola e per ordine cronologico e alfabetico nel meccanismo burocratico che piglia gli uomini nel suo ingranaggio, rigirandoli nei meandri dei suoi casellari, finchè li restituisce morti. Nascere, vivere e morire, significa percorrere tutto l'alveare anagrafico, passare da un registro all'altro, sciupando nel viaggio una catasta di cartacce scarabocchiate e bollate. È passato ora è poco il carrozzone dei delinquenti condotti al dibattimento con la vigile scorta dei gendarmi. La Corte di Assise è aperta! Il tempio della giustizia! Anche lì, codici, libroni, documenti processuali, matricole e matricolati: altre montagne di carta imbrattata, altre cagliature che rigirano nei loro scomparti i candidati della galera. Le suore del vicino monastero di Santa Chiara sono nell'oratorio, e cantano in coro la terza preghiera. Sento di qui le voci trepide, belanti, voci senza sesso, come quelle dei bambini. Prima preghiera alle cinque, subito dopo la campanella della sveglia, poi alle otto, e così a intervalli, tutto il giorno. Povere creature, che misera vita! Sono più di cento le recluse viventi nell'ombra assiderante dell'alto muraglione che le taglia fuori dal mondo. Donde vengono, qual soffio di vento sinistro sospinge ed ammucchia come foglie divelte tante derelitte nei freddi androni di quel sepolcro medioevale? Per gran parte sono umili fanciulle del contado che pigliano in uggia la vita comune, forse senza una ragione, attratte da un abbacinamento mistico, da una crisi di malinconia, da un ideale di sacrificio, da un dolore o da un dispetto, e vengono a murarsi, a macerarsi l'anima e la carne con le privazioni e le compressioni di ogni maniera. Creature buone, sensibili e pavide fatte di remissioni e di misericordia, insofferenti dei rudi contatti e del banale e faragginoso trin tran del mondo; o povere e ingenue marmittone diseredate, ristrette di spirito, rannicchiate in se stesse; cenerentole della casa, tenute come strumenti da lavoro, o come strofinacci domestici. E fra tante ignare e incoscienti, qualche anima gentile, conscia di sè, del suo diritto alla vita, battuta dalle procelle dell'anima, costretta dalla crudeltà del destino a rifugiarsi nel miraggio ideale di un'esistenza di solitudine e di preghiera. E quante ne muoiono! Ogni tanto verso sera si apre una misteriosa porticina, e via, quasi di soppiatto, senza un rumore, senza un fruscìo, ne portano una al cimitero. Un breve corteo di monachelle che scivolano silenziose lungo il muraglione, serrate in doppia fila, affrettate: tutte uguali, sòggolo e pettorina bianchi, cappuccio nero, alette forcute svolazzanti al vento, come schiera di rondinelle fuggenti, e dileguano salmodiando sommesse dietro l'umile bara della perduta sorella. Dal mio balcone vedo lassù, dietro il cupolino dell'oratorio, un segmento interno del chiostro: una specie di altana con poche finestrelle che occhieggiano timidamente al di sopra del muraglione. Spesso mi vien fatto di scorgere nel vano di quei buchi, una leggiadra figurina di monachella, di quelle in cuffietta, che non hanno ancora l'imbuto sulla testa. Dico leggiadra non a caso, perchè a volte posso guardarla col binoccolo, facendomi schermo di un vaso per non metterla in soggezione. Bella davvero nel suo drappeggio di mater dolorosa: una figurettina degna del Ghirlandaio, agile e fresca, modellata di grazie, e di eleganze spirituali; tipo di brunetta meridionale, faccina ovale accartocciata come un fiore nel sòggolo; incorniciata in un amore di cuffietta nera civettuola, con risvolto _plissé_ a cannelloni candidissimi. Apre la finestrella spiccando a tutto rilievo nello spanto del sole. Posso allora ammirarla a tutto mio bell'agio e la osservo con puro senso estetico, rispettoso di quella bellezza vereconda, votata al cielo, con una punta amara perchè quel volto delicato e pallido, quegli occhi profondi, hanno una espressione di tristezza, una velatura che mi sembra l'occulto rodìo di un'anima in pena. Si indugia per poco nella pennellata fiammante del sole, guarda lontano nell'orizzonte che di lassù spiega di certo l'ampia distesa della campagna, e poi dilegua nell'ombra della cella, ma non così presto da non lasciare nel vano nero l'ultimo bagliore dei suoi occhioni profondamente malinconici. Mai visto un lume lassù in qualunque ora della notte: certo la gentile monachella va a dormire al buio come le rondinelle che hanno il sòggolo candido, la capparuccia nera, e sono sottili, esili come lei. L'attesa e la soave apparizione di quella creatura, è per me una delle più vive attrattive; e quando tarda, frugo con l'indiscreto binoccolo nel mistero della finestrella chiusa. Perciò sono alquanto contrariato, appunto perchè da tre giorni non vedo apparire all'ora consueta la gentile cuffietta, e a notte la sua finestra è schiarita dalla nubeola di un lumicino fioco, e scorgo delle ombre che si muovono inquiete. La scorsa notte le fiammelle erano parecchie come in processione, e le ombre più numerose: un andare e venire agitato di sinistro augurio. Ammalata certo, e forse gravemente; la finestra sempre sbarrata malgrado il roseo invito del sole; più non vedo la pia verginella che mi irradiava inconscia nell'anima una soave salutazione di Ave Maria mattutina. Era tanto fragile, tanto smorta e quegli occhioni bruni e profondi avevano bagliori di febbre! * * * * * Undici ore--passa il sottoprefetto, grave, lento, preoccupato da chissà quanti pensieri. S'è alzato tardi e si capisce: ieri sera lo vidi quando rincasava dal teatro con la sua bella signora, dopo mezzanotte. La via era deserta e semibuia, madama batteva i tacchi sul marciapiede, pareva concitata, dispettosa; il marito prefetto, le andava dietro di un passo borbottando: si bisticciavano. Passando sotto al mio balcone, la signora esclamò: Che stupido! parlava forse di un altro: benchè la cronaca pettegola... Via, lasciamo andare. Adesso l'egregio funzionario esce per respirare una boccata d'aria, perchè presto è l'ora del dejeuner. Ma neanche in giro la gente lo lascia in pace, costringendolo a scappellarsi ad ogni passo, mettendo allo scoperto, alla luce del sole la sua testa rapala e lucente, un brivido di nudo ovale che gli scende fino alla nuca. Chissà quali e quante benemerenze patriottiche e civili onorano quella precoce e maestosa calvizie! E quel buffo di stornello che fischia i passanti, par che voglia beffarlo chiamandolo senza rispetto, con certe sufolate da carrettiere, come avesse a che fare con un merlo suo compagno di gronda. Prima dell'orologio e delle campane, segnano il mezzogiorno gli impiegati dell'anagrafe già pronti per andarsene, e i latrati e i mugolii lamentosi e famelici dei cani accalappiati, rinchiusi nei sotterranei del palazzo municipale, e tenuti per tre giorni in custodia e digiuno a spese del comune. Povere bestie, vivendo in consorzio con gli uomini, hanno contratto l'abitudine dei pasti regolari, e latrano a mezzogiorno e all'ora della cena in segno di protesta, per la patente violazione dei loro diritti civili. MERIGGIO. È l'ora della siesta, ora afosa, opprimente, in cui si addensa sulla città l'aria palustre del dintorno, arroventata dal sole; finanche i passerotti irrequieti smettono l'incessante su e giù, e si appisolano all'ombra dei tetti e sugli alberi, pipilando sommessi. Gli stornelli sono in giro di pastura per le campagne: uno solo rimasto lassù in vedetta; ritto sul ciglio della torre come un muezzin sul minareto, e gorgheggia nel silenzio dell'ora bianca, una strana cantilena flebile e monotona. Chissà? forse una nenia moresca imparata laggiù nel paese del sole e delle spezierie. Codarossa, il sindaco dei gatti, gatto burocratico, sdraiato pancia in aria alla turca sul tappeto erboso ombreggiato da una conifera, segue con occhio morbinoso e poltrone i saltelli di un elegante luccherino sulla magnolia. Ma Codarossa con la sua aria da pagliaccio, se ne infischia di quel fuscello alato, come dei topi pullulanti nelle grotte del municipio. Egli è un gatto di rango, gatto impiegato civile, che sente la dignità e il sussiego aristocratico della classe. Così per spasso, come i signori, si diletta di caccia leggera per svago, tanto per ammazzare il tempo. Delle volte balza di scatto, corre su due zampe, spiccando salti pazzeschi, da pulcinella, per azzeccare farfalle al volo, oppure adocchia le lucertole rincorrendole fra le siepi, strappandogli la coda, e si abbandona ai lazzi più buffoni, saltabeccando intorno a quel moncherino guizzante in convulsione. Adesso è stanco, annoiato, e riposa supino sul tappeto verde, guardando in aria con occhio beato da minchione. La strada è deserta, battuta, folgorata dal sole, i pochi passanti rasentano i muri riparando nella striscia di ombra portata dalle case. Anche il passero mio compagno di clausura, ha ficcato il becco sotto l'ala e messo in tacere quel suo formidabile cip cip che fora le muraglie. Penso che a giorni, a Dio piacendo, usciremo insieme, io col mio piede arrembato, egli sulle ali vergini al volo; io riprendendo il _trin tran_ monotono della mia vita casellata in orario, egli libero e giocondo per la via dei cieli effusi di profumi, raggianti degli splendori primaverili. Come i principi leggendari uscenti da perigliosa infermità, scioglievano i ceppi di un condannato al supplizio, così io darò il _via_ della libertà, al mio minuscolo prigioniero. Ci rivedremo ancora nel mondo? serberà egli un ricordo del suo protettore che lo ha salvato? Ricorderà ancora il balcone, la veranda e la sua gabbiola? Ebbene, confesso che mi dà pena il pensiero di non rivedere mai più il mio piccirillo, e quella sua eroica mammina che si struscia e strazia da tanti giorni per non abbandonare la sua creatura. Qual gioia per lei quando aprirò la gabbia dicendole: riprendi il tuo piccino, e portalo con te in un volo di estasi materna. Era morente, fiaccato, e te lo restituisco rifatto, vigoroso e forte; vi arrida la buona fortuna! Certamente il mio sopra illustre vicino cavalier Luciolani, nella sua gravità burocratica di ragioniere e perito, sorriderebbe di queste debolezze sentimentali, e chissà quante altre cospicue personalità la pensano in quel modo istesso! E si capisce: quelli sono gli omenoni gravi e positivi, le colonne della società, gente seria, campioni di quell'austera compostezza equilibrata che Emerson ha definito: _Buon senso quadrupede._ Più certo ancora è che tutti i solidi e geometrici Luciolani della terra, non hanno mai posto mente nè ai passeri nè agli usignuoli. «Tiò tiò to to ti» cantano gli uccelli nel famoso coro aristofanesco. «Tiò tiò to to ti». «Non v'ha cosa più soave o mortali Del librarsi sopra l'ali!» Ma ci vuol altro che queste bàgole poetiche per le zucche positive! Scommetto che se dicessi al cavalier Luciolani che un certo Aristofane ha cantato gli _uccelli_ e le _rane_, egli crederebbe in buona fede che si tratti di un intingolo culinario per guernire la polenta. E nemmeno madama Luciolani, _quasi donna_, tanto devota, pia come si addice alle dame di rango, nemmeno lei sa, si può giurarlo, che S. Francesco allietava la sua beata solitudine, conversando coi passerotti montani, e che finanche S. S. Leone XIII era appassionato cultore, e protettore degli uccelli. Una cosa sanno gli uomini seri e positivi, cioè, che gli uccelletti si mangiano, e sono un piatto delizioso. Ma questo lo sa anche il micio Codarossa che non è nè cavaliere nè ragioniere, e se ne sta meriggiando beatamente alla turca con la pancia al sole. FIGURINE. Verso le due pomeridiane, la strada si rianima: passano gli operai, i commessi di negozio, i begoloni che vanno al caffè, e a gruppi le popolane che tornano negli opifici riempiendo la via di festosi clamori. Giovani allegre, spensierate, sempre pronte a sghignazzare per le più stupide inezie: ce ne sono di belloccie davvero, ma per lo più troppo vistose nel torso e nei fianchi, con certe mosse procaci che all'apparenza dicono cose, le quali in realtà non sono che gesti inconsci di civetteria. Le sartine, le commesse invece, trotterellano con piede di gazzella, raccolte in graziosi ed eleganti costumini foggiati a pennello sulle loro agili figurine: scarpette irreprensibili, acconciature fantastiche, secondo il _dernier cri_ della moda. Procedono affrettate, con portamento contegnoso, riserbato, come damine pavide e impacciate; ma i loro occhi dicono il contrario. Ecco gli impiegati municipali, uno dietro all'altro, solitari, adagienti, stracchi di seggiola nel portamento sciatto indolente. Il meccanismo burocratico li foggia li impronta secondo il tenore delle loro mansioni: la _routine_ li maciulla, li annienta, irrigidendoli nella dormiveglia di un'atonia indifferente, diffidente e scettica di ogni cosa. Facce annoiate, atteggiate ad un sorrisetto di prammatica, sorrisetto professionale, indeciso, che vale per tutte le occasioni, come la loro carta di visita col P. C. il quale secondo le circostanze serve per congratulazione e per condoglianze. Costretti nella gerarchia della carriera a tenersi in panna fra le varie correnti e l'atteggiamento dei partiti che dividono la cittadinanza, essi adottano il partito più igienico e prudente di non avere opinioni, galleggiando, ondeggiando come turaccioli in acqua nei loro rapporti sociali e professionali, per non urtare con nessuno. Non c'è che Codarossa tra gli impiegati e funzionari che si permetta il lusso di una perfetta indipendenza, e agisca a suo talento, senza soggezione, fuori di orario e di casella, facendo senza un pensiero al mondo il comodaccio suo. Ah quella grinta, con le sue arie da pulcinella, sfugge alle prese dell'ingranaggio burocratico che concentra nel vuoto i suoi colleghi di ufficio. Egli è anarchico in politica e in civile, e s'infischia allegramente di qualsiasi autorità superna o subalterna, della gerarchia come del regolamento. Recentemente in occasione di non so qual cerimonia ufficiale, mentre gli altri impiegati sfilavano in tuba e frack al ricevimento del sindaco, si dovette distrarre dal servizio due pompieri in grande bardatura di parata, con elmetto e pennacchio, e sguinzagliarli alla caccia di Codarossa che faceva il pagliaccio senza rispetto nella sala dei matrimoni, buttando in aria carte, calamaio e documenti. Ieri il Sindaco, due assessori e il segretario capo traversando il giardino si soffermarono a mezzo, discorrendo animatamente: Codarossa era lì ad un passo oltre la siepe di mortella, intento a certe sue occorrenze urgenti, e senza un ritegno al mondo continuò l'affar suo come niente fosse, senza neanche voltarsi. L'AMORE. Scoccano le due, ed ecco apparire alla svolta di piazza Mercato la solita coppia di innamorati, con esattezza cronometrica. Sempre così ogni giorno, al momento preciso, come se l'orologio battendo le ore li lanciasse fuori con uno scatto di congegno automatico. Avanzano lenti, incuranti, anche nei tratti di strada fulminati dal sole. C'è il sole? non se ne accorgono: essi bruciano più di lui; nelle loro anime sfavilla una luminaria pirotecnica di fontane luminose, una pioggia di stelle filanti, l'arcobaleno di un'estasi divina. Avanzano lenti frusciandosi, ninnolandosi, sfiorando appena il terreno, come levitati da un volo interiore. Si cammina, si vola così aleggiando una volta sola, nella primavera della vita, come in sogno, attratti, allucinati dal miraggio di un mondo divino, risplendente al di là delle stelle. È l'amore, l'amore in fiore, inesprimibile: l'amore quintessenza astrale intangibile, l'amore incantamento che dal nulla, da uno sguardo, da un sospiro, trae un filtro inebriante, e crea un empireo di bellezza trascendente, al cui paragone sono pallidi riverberi lontani le musiche e i poemi, i canti delle Pierie, e i pomi d'oro delle Esperidi. Posso guardare, ammirare a mio agio la coppia beata che avanza adagiando, ondivagando smarrita in se stessa. Lei è una bellezza esotica; tipo orientale, modello estetico che non ha riscontro di parentela con le figure del nostro paese: polline disperso di un fiore di altro clima, soffiato qui dal vento levantino. Testa da Guercino dolcemente inclinata, incappucciata in una massiccia capellatura bruna, ondulata e lucente, tinta lievemente ambrata, occhioni grandi stellanti che guardano lontano nel mondo dei sogni, e hanno dentro una tristezza di esule; la tristezza semitica: andatura flessuosa, di mollezza orientale. Lui no, non è niente estetico: tipo maschio e forte: magro, segaligno, disseccato forse dalla febbre di quegli occhioni, rosolato da una cottura di passione che gli asciuga l'anima e gli porta via il discernimento. Sono fidanzati, mi dice la donna di casa. Due volte al giorno passano di qui e talvolta anche a sera tarda, a braccetto o addirittura abbracciati secondo il colore del tempo. Del resto sia giorno sia notte, si capisce che non vedono che se stessi, e niente altro al mondo, ed è facile arguire che un bel giorno, a Dio piacendo, invece di tirar dritto, svolteranno a mezza via al cancello del giardino municipale, e su per lo scalone andranno a finirla una buona volta. Si sposeranno: l'amore in fiore, l'essenza divina consolidandosi in frutto, cederà l'ale e andrà pedestre per il mondo battendo i tacchi sul selciato della realtà inesorabile. L'incantesimo, le ebbrezze astrali tuffati nel reagente burocratico, diverranno sostanza tangibile e palpabile: e allora, addio. _Verbum caro factum est!_ e con quattro sgorbi di nero sul bianco, lo sbarbaglio del loro poema d'amore, resterà sigillato, protocollato sui libracci dello stato civile, e cesellato in archivio. Amen! TRAMONTO. Verso le cinque, nell'ora gaudiosa in cui il cielo sciorina e stempera in mirifiche trasparenze i colori e le iridate sfumature del tramonto, gli stornelli ritornano alla spicciolata dalla campagna adunandosi a congresso, man mano che arrivano, sul tetto spiovente della torre fulminata in pieno dalle zaffate del sole. I passerotti irrequieti fanno un patassìo così assordante, che Codarossa raggomitolato all'ombra delle tuie, si alza, e se ne va con segni evidenti di disgusto, trainando svogliatamente la coda di sghembo, come gli ufficiali annoiati trascinano la sciabola. Le rondinelle volteggiano alto nell'azzurro con la pancia pennellata di sole. Il giardino smuore lentamente nell'ombra bigerognola del vespro, spegnendo la luminaria veneziana dei geranii, delle salvie, delle verbene in fiore. La torre ancora soleggiala in pieno, ride nel tepore dell'aria, luminosa e rubizza nel suo faccione da mandarino carnevalesco. Più oltre, laggiù intorno alla piramide di San Vincenzo, i gheppi roteano in grandiose e lente spirali, cacciando sibili e garriti aspri, metallici, come stridori di lima sui denti della sega. Ecco i martinetti, i rondoni, i canottieri dell'aria! Irrompono fulminei come raffiche di proiettili lanciati da una batteria di mitragliatrici: sembrano brigate chiassose di mascherotti in domino e marsina, con moretta nera fino al taglio della bocca: le code stirate, giunte in ritardo alla festa. E cominciano i volteggi, le danze, le farandole, i mulinelli vertiginosi intorno alla torre, riempiendo l'aria di gridi gioiosi, aguzzi e lunghi che trapassano il cervello come aghi. Oh la meraviglia di quell'ala formidabile, vittoriosa, che non conosce nè stanchezza nè posa! Per due ore senza tregua, i mascherotti danzano, tripudiano nel delirio del volo, roteando, rincorrendosi a zig zag pazzeschi, incrociandosi a frotte come nembi di spole nere che trapuntino la vacua sofficità dell'aria. I passeri accorti e circospetti, abbreviano i voli e si tengono prudentemente al basso, temendo lo scontro disastroso di quegli arieti turbinanti. I quali dopo quella scorribanda vertiginosa intorno alla torre, cominciano col calare dell'ora a dileguare inavvertiti, come monelli in ritardo alla cena; salgono salgono levandosi in grandiose spirali, e spariscono nel verdazzurro infinito del cielo. Dove vanno? In alto, risponde il nostro grande Spallanzani che li studiò sagacemente: in alto, in excelsis; si disperdono a piccole bande nell'azzurro celeste, e non discendono di lassù che alla prima luce del giorno, alla spicciolata, per intanarsi nei buchi delle torri e riposare finalmente. Le prime nottole con volo molle come cenci all'aria, guizzano nel rettangolo del giardino già dormente nell'ombra: il verdegaio delle aiuole si incupa: una brezzolina lieve e umida lambe e scuote in una carezza i ciuffi fioriti e le criniere delle edere e dei vilucchi rampicanti. Un tenue roseo vespertino fascia ancora il sommo della torre: gli stornelli ritti in giro sul ciglio, becco in su, nereggiano sul ciclo scialbante, e gargottano con voce flautata un corale sommesso, interrotto a quando a quando dalle zufolate da carrettiere di quell'altro, che si diletta a beffeggiare i passanti. I passerotti raccolti nel frascame degli alberi ciaramellano tutti insieme, narrandosi forse la cronaca della giornata, o come crede con francescano sentimento il volgo, sciogliendo la preghiera della sera al buon Dio che li assiste. Giù nella strada si accendono i lampioni, i passanti non sono più che ombre nere affrettate, indecifrabili. I falchetti di S. Vincenzo allargano sempre più i cerchi del volo nell'aria imbrunita, allenandosi per le imminenti incursioni notturne, alla caccia della preda; ma ormai gli inquilini della torre sono al riparo: passeri e stornelli dormono tranquilli nei loro alloggiamenti. Anche la passera, la mamma del mio prigioniero, ha lasciato con l'ultimo barlume la gabbiola: per certo ella si appiatta alla meglio sotto il tegolato della rimessa per vigilare da presso il suo piccinino, mentre egli dorme appollajato su l'ultima stecca, sempre con aria imbronciata e dispettosa anche nel sonno. CRISI MUNICIPALE. È questa l'ultima sera del mio sequestro a domicilio: il dottore mi dichiara guarito e mi consente di uscire domani con prudenza e bastone, dopo colazione. Ho cenato di gusto conversando con amici che vengono a farmi compagnia, portandomi con l'aria della strada le notiziette, le quisquilie, le spazzature della cronaca cittadina. Quante minuscole frascherie! Un fatto volgare, uno scandaluccio, un pettegolezzo, un pulviscolo di miserabili cose, bastano al pascolo quotidiano di tutta una cittadinanza. Vivendo in questa atmosfera asfittica di sciatterie, i cervelli si atrofizzano nell'inedia del vuoto, talchè sembra unica ragione del vivere quel nulla di gofferie e di malizie che alimenta la bassa curiosità della gente. Ascolto con animo lontano le chiacchiere di cronaca che mi riferiscono gli amici: quel fufù di cose insulse, quel ciarpame di frivolezze, di piccole beghe cittadine, riverberano sullo specchio sereno della mia solitudine meditativa la visione di una nuova e più comica Lilliput. Si profila una crisi municipale, mi dicono gli amici. Proprio stassera si terrà consiglio: seduta straordinaria e movimentata, che avrà per sicuro epilogo le dimissioni del Sindaco e della Giunta. Intanto i bilanci non sono ancora approvati: si vocifera di storni irregolari, di progetti falliti per stringenti difficoltà finanziarie, ecc. ecc.... con veduta in lontananza di un commissario prefettizio, e probabile scioglimento del consiglio. Strano! quei discorsi, quelle ciàccole che animavano tanto i miei amici, mi parevano echi lontani di un mondo morto e sepolto, e ci vollero dei grandi sforzi per mandare indietro gli sbadigli che mi salivano alla gola. Decisamente la mia sensibilità affinata nella solitudine ha preso in uggia quel gergone di voci e di parolacce che sentono un tanfo di muffa burocratica. La crisi, l'interpellanza, lo spareggio, gli storni, il preventivo, il consuntivo, il Commissario!... che importava a me di quelle storie rancide, di quelle beghe, di quell'accozzo di voci barbare da azzecca garbugli? Io pensava con tristezza nostalgica al mio balcone tranquillo, specola discreta di tante osservazioni attraenti: pensava al giardino, alla torre, al piccolo mondo così denso di varietà, sgargiante di luce, di colore e di suoni, che si svolge con tanto fremito di vita intorno alla mia solitudine. Ah! l'inane e misera banalità della _routine_ quotidiana coi suoi minuscoli intrighi, con le sue vanità e coi suoi industriosi egoismi da formica, mi congela l'anima! Gli uomini e le cose e le bègole cittadine evocati in quei discorsi, stridevano come sfregi e stonature villane sullo schermo luminoso del mio poemetto georgico, come stridono e disgustano nei quadri dei grandi maestri, i grotteschi dei nani sciancati e dei gozzuti, schizzati per bizzarria di contrasti. Pensava ai lieti passerotti, agli stornelli di lassù che non hanno nè consiglio nè bilanci, e pur vivono giocondi senza pensieri, cantando laudi di amore al _frate sole_ e alla provvidenza divina. E quando gli amici mi dicevano COMMISSARIO, mi veniva in un brivido per associazione di idee, la visione nera del gufo ronzante con volo silente e sinistro intorno alla torre dormente. E quando dicevano CONSIGLIO, io pensava alle grottesche congreghe notturne dei gattoni barbigiati e caudati che fanno striazzi e baruffe indiavolate nel giardino, sotto l'alta presidenza del sindaco Codarossa. Un mese di solitudine pensosa, di risciacquo all'azzurro, all'aria, al sole, mi ha fatto la vista grande, mi ha ossigenato il sangue, ringiovanito la mente di freschezze spirituali, riaccostandomi alla natura. NOTTURNO. È mezzanotte--notte lunare: nell'aria spira un sussurro melodico di _casta diva_. Gli amici se ne sono andati da un pezzo, ed eccomi ancora indugiante sul mio balcone, assorto, smarrito nella contemplazione del ciclo costellato. La grande orsa, come enorme ragno tiene fra le zampe stellanti metà della geometria siderale; le pleiadi, le gallinelle, sciame di lucciole palpitanti; più oltre, nel profondo abisso, un dardeggiare vespigliante di rubini, di topazi, di zaffiri proiettati in fascio di fiamme, forse Sirio; chi lo sa? e che importa saperlo? Che monta un nome alle meraviglie della creazione? che importa numerare, casellare? vorremo matricolare, e dare uno stato civile anche alle stelle? Guardando il cielo, in una notte serena, ci assale il brivido angosciante dell'infinito, la vertigine dell'eternità! Ahimè quanto siamo miseramente egocentrici e soggettivi! Ha ragione Voltaire: _Bonne ou mauvaise santé Font notre philosophie._ Nell'etere metafisico delle astrazioni, nulla è più relativo dell'assoluto: le stesse cose osservate con animo diverso, librano Biagio Pascal al volo della fede, e piombano Leopardi in quella tenebra che Mazzini ha definito «disperazione anarchica!» Penso con senso di rimpianto all'addio che sto per dare a questo tranquillo rifugio per rientrare ciabattando nella banalità della vita positiva, senza fiori, e senza stelle. Serata deliziosa: un silenzio profondo che mi lascia sentire il mio respiro: a tratti, a folate, giunge il lontano susurro serico dell'aria frusciante nei grandi platani dei viali, e il fievole corale dei grilli e delle cicale. Ancora lumicini in processione erranti come fuochi fatui, e ombre spettrali, si agitano alla finestra della monachella: che avviene lassù? Nel giardino si stende come un drappo funebre l'ombra portata dal palazzo: appena si discerne la striscia grigia dei sentierucoli. I ciuffi densi delle tuje e delle ortensie, sono chiazze nere nel buio: le siepi di mortella e le zolle bigherate, nereggiano come rettili striscianti sul bigio tenue delle ghiaie. Spenti i lumi del palazzo municipale: la seduta durata fino alle undici è finita. Chissà come? penso alla crisi, e sorrido ricordando i gatti i quali questa sera sono in ritardo al consueto convegno. Via passa nel silenzio dell'aria un chiurlo sinistro che si disperde lontanando.--Il gufo! Alzo gli occhi alla torre nello sgomento di udire il gemito lacerante della vittima strappata al dolce nido, ma nulla: il rapace uccellaccio punta altrove il famelico rostro. La vetusta nonna torreggia maestosa e silente nella sua mole, vigile scolta eretta con gesto altero di cipiglio. Dalle propinque campagne viene a folate intermittenti col cri cri metallico dei grilli e lo stridio delle cicale, il corale dei ranocchi, come ronzo lontano di cento raganelle. La strada deserta: qualche raro passante rasenta la cancellata del giardino, dilegua nel buio e si sente lontanare nel silenzio morto, alla battuta del tacco sul selciato. Qualche cane randagio, affrettato e circospetto, con la coda dimessa, passa furtivo nell'ombra. SABBA GATTESCO. Scocca nell'aria l'una dopo mezzanotte. Ecco, Codarossa lancia nel silenzio nero del giardino il primo gnaulato! Un gattone bianco attraversa la via come un razzo, e salta di balzo dentro la cancellata: due altri vengono di fuga dalle ombre del mercato, e dentro anch'essi: ed altri ed altri ancora, sbucati da ogni banda, come congiurati in agguato, in attesa del fischio. Già dai primi approcci fra i congressisti, si comprende che c'è del torbido nei propositi; fremiti di collera compressa, e una voglia belluina di menar le zampe. Rugliamenti, ringhii pieni di livori, soffiate e starnuti: guaiti atroci che pigliano alla gola: botta e risposta da ogni parte; duetti, terzetti e ripieni concertati di strida, di gemiti laceranti, di soffioni, di sibili serpentini che agghiadano il sangue. La seduta è aperta. Giove salato, che dialoghi in versi amebei! Miagolati, ululati a destra a sinistra, quinci e quindi, come nella battaglia di Maclodio! Uno «i duole come un moribondo, soppannato in falso bordone da un coro di rugliamenti ringhiosi: un altro articola gemiti quasi umani: _o maman! oh... mi! ahi... Ahi... ahiajajass!_ con lamenti da stregone messo sul braciere. Ha ragione il dottor Raiberti, l'arguto psicologo del gatto: si chiamano, si minacciano, si azzuffano con accenti omerici, gridando, articolando distintamente: _Menelao... aia...ce, agamenno...on!_ Quanti sono? nel nero delle siepi sfavillano e sforacchiano a tratti, baleni e costellazioni di occhioni verdi e gialli da basilisco. Un po' di sosta, tenuta in tensione da un sordo brontolio, e poi di scatto ripigliano urlando, ringhiando come belve sbrancate da un serraglio. Evidentemente anche i gattoni sono in crisi come i membri del consiglio: forse Codarossa sopraffatto dalla maggioranza ostile, dà le sue dimissioni come il sindaco del comune, suo collega. Ecco adesso è lui che arringa con impetuosa eloquenza; conosco fra tutte la sua voce tribunizia: gli altri, i gatti consiglieri e i membri della giunta, ascoltano rugliando sommessi, o minacciosi, secondo il colore politico e la fazione. Un breve silenzio, poi di nuovo l'assalto più accanito, più disperato. Dio che bolgia dantesca! una baruffa di demoni di serpenti, alle prese nelle tenebre. Fischi, urla, gemiti, stridori e rantoli che danno lo spasimo: guaiti lunghi che fendono il buio come spade lucicanti, lamenti di donne partorienti, e vagiti laceranti di bambini straziati dilaniati in una nuova Strage degli Innocenti. E sopra tutte, più forte e perforante si leva la voce di Codarossa, ululante come se gli strappassero le budella dalla pancia. Che avviene in quel groviglio nero, nel cozzo di tante anime dannate? Assale il pensiero la visione e l'orrore di una carneficina da pellirossa. Buffate rabbiose, soffioni, garriti e sibili da drago: un frusciamento rapido di fughe nel fogliame squassato, e poi ad un tratto più nulla, come per incanto, come se il tocco di una bacchetta magica avesse intimato il silenzio alla satanica tregenda. Dall'inferriata del cancello sbucano e balzano fuori a scatti i consiglieri, mogi e silenziosi, cadendo con tuffo agile e floscio di bambagia; e bianchi e neri e bigi, filano via quatti e striscianti nell'ombra, con le code allungate e dimesse. Non un morto, nè un ferito dopo tanto strepito! La seduta è sciolta. TRAGICA IRONIA. Dal fondo della via deserta si profilano due ombre: avanzano parlando sommesso, si soffermano presso la cancellata mentre io spio fra i vani del balcone: riconosco gli innamorati, la bella fenicia e il suo damo: abbracciati s'intende. Un bisbiglio inafferrabile da bocca a bocca, e un bacio ardente scocca, solcando di un brivido di amore il silenzio dell'ora; un bacio lungo intenso, che anticipa la sveglia di tutta una posterità nascitura. Al biscanto della via sopra la lapide del grande Leonardi giureconsulto ed umanista, che dà invano il nome alla contrada dei Gatti, splende un fanale indiscreto; ma gli amanti sghisciano via, e si soffermano nel vicolo nero, contro il muraglione del convento di Santa Chiara. E allora... in gamba Giovanin! Non li vedo più, ma li sento a intervalli per la musica dei baci che sembrano chiamate di gatti. Tragica ironia delle cose! proprio ai piedi della carcere claustrale, in quell'ombra frigida che avvizza, sugge e strazia il fiore di tante verginelle inconscie, schiantate alla promessa della giovinezza, agli inviti, ai sogni dell'amore: proprio al piede di quel sepolcro, sulle labbra della coppia innamorata erompeva in trionfo il ditirambo della vita! E mentre presso a quel muraglione sacro per tante rinunzie, per tanti dolori strozzati, vibra e freme un poema dionisiaco, lassù sull'altana del chiostro, nell'occhio fioco della finestrella rischiarata, leggo e sento, e so, che la smorta monachella smuore nelle strette dell'agonia, esalando sul gelido crocefisso l'ultimo bacio della sua bocca immacolata, l'ultima favilla dell'anima assiderata nel martirio dell'essere che rinnega la sua sostanza e le leggi della natura, anelando al cielo! RICORSI ANTICHI. È tardi: un coltrone di nuvolaglie spegne la luna: tutt'intorno si addensa un cerchio di ombre, un silenzio estatico imponente, nella cui paurosa immensità, gravita e incombe la presenza divina. La torre immerge nelle tenebre il ciclopico testone arroncato di secoli e di storia. Forse nell'alto silenzio che avvolge ogni cosa, la vetusta mole obliosa del presente, sogna e rivede nella notte nera le remote vicende dei tempi lontani, e rivive nella ricorrente visione del suo mondo, illudendosi che nulla sia mutato nel corso dei secoli. Ancora come allora, i passeri e gli stornelli riposano in pace sotto l'usbergo dell'ampia sua visiera: ancora si erge compagna contubernale la piramide aguzza e squamosa di S. Vincenzo, nido di falchi predatori. I piccioni selvatici e i gattoni municipali e del dintorno, sono ancora la propaggine delle stirpi gentilizie che popolavano i buchi e gli anfratti dell'antico convento: i cani accalappiati, latrano e gemono nella notte, come le mute di veltri e di segugi del suo antico signore. Ancora domani, sogna forse la torre, ancora domani col sorgere del sole, si risveglierà la vita feudale del castello, i convegni sfarzosi in costume da tarocchi, i giuochi, le giostre, le canzoni, le dame, i cavalieri, l'armi, gli amori. Ancora sulle piazze e nei crocivii i popolani i servi e le donnaccole ammucchiati come pecore, ascolteranno ansiosi e sbalorditi la canzone di Turoldo dal labbro dei _ioungleurs_, i torotelela raminganti per le terre, cenciosi e famelici come sciacalli. Mentre nel morbido tepore delle sale dalle ampie vetrate policrome, o nel mistero degli orti romiti, le castellane belle e cortesi, nello sfarzo dei drappi contigiati, sonnecchiano in estasi di sogno, blandite dalle dolci canzoni di Provenza, e vibrano di reconditi sussulti al verso procace di Cirello di Alcamo, schioccante nel sangue come una frustata di passione. Ancora sorge lì presso, e nereggia cupo come feretro immane, il monastero di Santa Chiara, con le sue celle mortifere, con le sue verginelle ignare, immolate alla penitenza, al martirio, senza peccato. Ancora puoi illuderti, fantasticare e sognare dentro la tua fronte stigmata, e rivivere nel miraggio del tuo mondo cavalleresco o vetusto Torrione, che nel torvo massiccio cipiglio della tua mole evanescente nell'ombra, mi proietti non so perchè nell'anima il fantasma della torre di Pamplona, della quale mi favoleggiava a canto al fuoco la mia cara nonna. Tu guardi largo e lontano nell'orizzonte coi grandi occhi spalancati delle tue bifore, ma non vedi oltre al cerchio del tuo carciofo, e vivi pur tu alla provvidenza, come i passeri e gli stornelli che fanno le covate nel tuo testone. L'ala del tempo non ha lasciato sulla tua faccia un solco, un segno ammonitore per chi volesse, dalle vicende che ti ebbero testimone, trarre un concetto morale della vita, e arguire per esempio se sia meglio per gli uomini inventare nuove virtù o nuovi peccati mortali. Se cioè l'umana gente perfezionando scientificamente gli strumenti della sua esasperata barbarie civile, miri a una finalità ideale di giustizia e di pace, o se, come pare, l'umana progenie sia dal fato condannata a sterminare se stessa, per far luogo ad un animale meno tristo ed insensato. Tu stendi sui tempi nuovi l'ombra torva del tuo profilo ghibellino, assorta nei tuoi sogni antichi, e domani quando nei crocivii e per le piazze i moderni menestrelli, i nuovi torototela, ossia gli strilloni dei giornali grideranno: «_Crisi municipale; dimissioni della Giunta_», tu domanderai stupefatto al tuo vecchio compare, il campanile di San Vincenzo, da quale arca di Noè provenga il gergone barbaro di quelle strane canzoni. Ma domani io non sarò più qui a interrogarti o sognante torrione, misero spettro ritardatario, sperduto in questo formicaio di insetti irrequieti che si affannano, come le genti di tutte le età per dare la scalata al nulla. Ti manderò invece araldo del mio cordiale commiato, il piccirillo prigioniero che dorme sempre imbronciato nella gabbiola, ed egli verrà colla sua mamma sul tuo cocuzzolo medioevale a cantare l'inno al sole, alla natura, alla libertà. ? ? ? Mi sveglio tardi: la giornata è un tripudio di sole trionfante: nel frizzore agrigno dell'aria mattutina flottano inebbrianti effluvi campestri che dilatano il respiro. La torre erta nello spanto luminoso ride per ogni grinza del suo faccione. Mi sorride, mi letifica il pensiero di una passeggiata aprica nel verde delle ripe selvatiche, fiorenti di anarchica vegetazione, alla grande aria che sente l'aroma aspro delle fragarie, e l'alito vellutato e grasso delle ortaglie. Dopo l'esilio di questi lunghi giorni di solitudine meditativa, riprenderò la cara consuetudine delle mie passeggiate lungo gli argini del fiume, e per gli ombrosi sentieri campestri, dei quali sento davvero la nostalgia, assai più che del ritorno alla plumbea monotonia della vita cittadina. E così, dopo la colazione, via all'aperto, io e lui, il mio piccinino che certo non si aspetta questa gioiosa sorpresa. Confesso però che mi dà una punta di malincuore il pensiero di non rivedere mai più questo mio minuscolo compagno di clausura. Quale sarà il suo destino? come affronterà l'inesorabile lotta per la vita avvezzato come egli è alle più squisite ghiottonerie che allietavano la sua schiavitù? Saprà egli così inesperto schermirsi dell'artiglio dei gheppi, e dalle insidie belluine di Codarossa? Evvia! lasciamo andare: la libertà val bene questi rischi: eppoi c'è la sua mamma che lo aspetta, e c'è anche la provvidenza dalla sua: non disse il divino Rabbi che il padre celeste si prende cura eziandio dell'esistenza degli innocenti uccelletti? Ho diligentemente ispezionato il piccolo prigioniero: egli è agile, vigoroso, imbottito di benessere, turgido di energia bramosa di spazio, e sfarfallerà inebriato alla vita libera, all'aria piena di inviti e di promesse per le sue ali ancora vergini al tripudio del volo. Meglio dunque incominciare nella pompa del mattino la sua liberazione per dargli agio di allenarsi nella giornata alle prime prove, ed orientarsi nelle nuove necessità. Vado verso la veranda del cortile risoluto di dargli subito il largo e finirla con le perplessità patetiche che mi indugiano. Caso insolito, la passera mamma non è sulla gabbiola, e neanche sul tetto prospicente della rimessa, ma sul cornicione più elevato della casa. La domestica anche lei affezionata al piccino, mi dice che la passera si è impaurita di Amleto, il quale stava facendo la sassaiuola al gatto del portinaio. Quel ragazzaccio grama pelle, borbottava la donna irritata, pare il figlio di un brigante! Lasciai la domestica nella sua collera, il momento non era propizio e rimandai la liberazione del prigioniero. * * * * * A fra poco dunque passerina gentile ed eroica che ti meritasti questo gran premio con tanta abnegazione, tu non hai mai abbandonato la tua creatura in questi giorni della sua prigionia che furono per te un calvario di passione, di angoscie e di travaglio. Tu sei un soffio, un ruscellino, un sospiro alato, ma quanto grande e nobile mi sembra la tua animula tutta fatta di amore, al paragone della massiccia e torbida banalità di questo mondaccio equivoco in cui sto per rientrare?! A tra poco mio bel piccirino che te ne stai lì imbronciato come a dire che non mi pagherai la pensione! Rientro completando intanto la mia toeletta per essere pronto dopo colazione a lasciare finalmente il mio reclusorio, e scantonando per la viuzza del monastero, sboccare all'aperto della sospirata campagna. Ad un tratto, una brusca chiamata della donna, mi arresta il volo dei pensieri: un altro grido di disperata indignazione, mi fa accorrere in cucina. Ma ahimè è fatta! Quel tristo scarabocchio di Amleto, col suo schioppetto silenzioso, ha fulminato la povera passerina, sul tetto della rimessa. Vedo la misera bestiola dibattersi, starnazzare nell'estrema convulsione, e morire protesa, boccheggiante verso la gabbiola, come per mandare l'ultimo addio alla sua creatura. Era fatale che quei due poveretti non dovessero più ricongiungersi! Con un indicibile e profonda amarezza, disgustato, aprii risolutamente la gabbia e mi ritrassi in disparte, imponendo col gesto il silenzio alla donna fremente e convulsa, che invocava per Amleto la strage di Re Erode. Il piccirino stette alquanto perplesso, scese cauto sull'usciolo, si guardò intorno come sorpreso, sbattè le ali, prese l'abbrivio, spiccò il volo sicuro, e disparve come freccia, passando immemore sopra il cadaverino ancora caldo della sua povera ed eroica mamma. Addio la mia lieta giornata! Non oso dire il dolore che ho provato per quella crudeltà del destino. FINE. MAOMETTO ALLA GENTILE MIA COGNATA SIGNORA ENRICA ROSSI ORLANDINI ATTORI MAOMETTO--Camminante. Tipo di intellettuale sbracato. Bell'uomo, figura di vagabondo internazionale, sbrendolato, ma con residui di abiti di antica distinzione. Ex professore, barba e chioma argentea alla nazarena. Anni 50. BEZOLONE--Segretario della lega, azzimato con qualche ricercatezza. Specie di scrivano da mercato. Testa arruffata: mento pronunziato assai, dal quale appunto ebbe nome di Bezolone. Berrettone da _apache_, modi tribunizi. GAMBA D'BOSC--Zoppicante con stampella. GAMOLONE--Mendicante. Membro del Comitato. TREGOSS--Mendicante. Membro del Comitato. Gozzuto e lurido. DON PINTA--Mendicante, membro del Comitato. Figura di alcoolista. STÉNTORE--Mendicante. Così chiamato per il suo vocione. Tipo erculeo, imponente e simpatico. RATTONE--Mendicante. Scamiciato e a pezzi. L'ANARCHICO--Mendicante. Piccolo buldog, irsuto e prepotente. GUBERNA--Mendicante--Gobbetto, specie di scagnozzo ancora mezzo prete, untuoso, rattrappito di furbizia, dal fare bonario e arguto. ALTRI PEZZENTI di varie fogge pittoresche nell'insieme. Alcuni interloquiscono e sono le voci. I più fanno la massa variopinta e grottesca dei vagabondi comizianti. VOCI DIVERSE. * * * * * Sul velario ancora abbassato, un cartello a grandi caratteri dice: _Lega dei Questuanti._ «Compagni! Stante la questione del caro-vivere, si invitano i colleghi mendicanti e accattoni di sesso mascolino a trovarsi domani sera alle ore 21 precise nella brughiera detta del Laghetto per uno scambio di idee sopra gli interessi morali e materiali della classe. «per il Comitato «_Bezolone_». LA SCENA. _Serata di plenilunio in aperta campagna di brughiera sabbiosa presso il Po.--Macchie nere di stoppie, e piccoli gruppi di alberelli, e ciuffi di arbusti.--A sinistra la scena è chiusa da un ronchio sterposo elevato dal piano così da servir da tribuna e banco presidenziale._ SCENA UNICA. All'alzata del velario già il grosso dei comizianti è sul posto.--Cenciosi, lazzaroni di ogni risma e foggia sono a gruppi in chiacchiere animate.--Man mano intanto dai sentieri, sbucano come ombre sullo sfondo lunare alla spicciolata altre sagome di figure strane, barellanti, zoppicanti che vengono a riunirsi alla massa addensantesi presso al rialzo sterposo che fa da tribuna. _Tutti gli attori in scena._--Bezolone e i colleghi del Comitato concertano.--Maometto seduto a terra in disparte, estraneo a ciò che succede, sta assorto in se stesso guardando nel vuoto. BEZOLONE Ma che! Ci mancherebbero le donne! Tutto il comitato fu d'accordo nell'escluderle dal comizio. RATTONE Le donne non son gente. DON PINTA E allora perchè non si escludono i cani? TREGOSS Giustissimo, approvo! Via anche i cani; sono retrogradi: difatti hanno la coda. DON PINTA Invece le donne non hanno coda, e sono il gentil sesso. TREGOSS Vero è che le nostre donne sono carcasse sgangherate. RATTONE (_ride_) E tu Tregoss vorresti forse delle dattilografe per carezzarti le pive? BEZOLONE Basta, non fate dell'ostruzionismo. O coda o non coda: i membri del Comitato non vogliono donne, ed è scritto sull'invito _mendicanti di sesso mascolino_. Non seccarmi altro, Don Pinta, o ti pigli un ceffone. (_fa il gesto_) GAMBA D'BOSC (_ironico_) Viva la libertà di opinione! BEZOLONE Tò! anche tu, Gamba d'bosc, vorresti le chellerine al comizio? E sì che sei anche tu del comitato che deliberò l'esclusione delle femmine. GAMBA D'BOSC (_ironico_) E sei sicuro che i cani intervenuti siano tutti maschi? BEZOLONE Delegheremo te per ispezionarli sotto la coda. (_Risata_). VOCI Si comincia? fuori! fuori! (_fischi, applausi e strepito_). BEZOLONE Calma amici--a momenti--non sono ancora le nove.--Chi ha l'orologio? GAMOLONE Il mio si sente, ma non si vede. BEZOLONE Come dire? GAMOLONE L'ho collocato al sicuro. GAMBA D'BOSC Al monte dei pegni. GAMOLONE Più alto... sul frontone del palazzo municipale. STENTORE (_con voce taurina_) Sono le nove! Bezolone, avanti. VOCI Bravo Stentore... Viva la Russia! DON PINTA (_autorevole_) Si apre il Comizio... chiudete le porte. Chi c'è, c'è! (_Si leva un brontolìo nella massa. I cani dei ciechi abbaiano_). BEZOLONE (_sale sul ronchio_) Compagni... cittadini... amici... signori mendicanti!... (_il frastuono cresce_). STENTORE Ma per Cristo... strozzate quei cani! (_in varî punti si picchiano le bestie che mugolano sordamente_). VOCI Silenzio... alla porta! (_Don Pinta, Gamba d'bosc ed altri si intromettono nei gruppi, ottenendo un po' di silenzio_). BEZOLONE (_declamando_) Amici: a nome del comitato, apro il comizio. Ma prima di tutto osservo che il banco presidenziale non ha il campanello. Chi ha una pentola, un tegamino? UN PEZZENTE Eccolo (_avanza offrendo un gamellino_) ed ecco il battocchio (_porge il cucchiaio_). RATTONE Bravo! ma se ci fosse dentro una zuppa... BEZOLONE (_picchiando sul gamellino_) Silenzio, signori. VOCE Va a impiccar te, e i signori! (_nasce una zuffa da quella parte_). STENTORE Silenzio, razza di cani! (_interponendosi minaccioso ottiene un po' di tregua_). BEZOLONE Onorevoli compagni! VOCI Abbasso gli onorevoli, pesci-cani del parlamento! Abbasso il parlamento!... Viva Lenin! Viva la polenta! (_Da capo nasce il fermento nel mucchio. Ottenuta un po' di calma, Bezolone attacca_). BEZOLONE Compagni: noi siamo qui adunati per ragionare degli interessi della nostra classe. E io dico e proclamo che è ora di finirla con questa porcheria del caro-vivere. TREGOSS Vogliamo pane e giustizia! UN PEZZENTE (_sorgendo alle spalle di Tregoss_) Meglio pane e salame. TREGOSS Giusto! ha ragione il mio di dietro. L'ANARCHICO (_con forza_) Ci vuole la dinamite! VOCE Buttatelo nel Po quell'anarchico! (_Parecchi si avventano contro costui; volano cazzotti, si levano stampelle e bastoni_). STENTORE O miserabili pidocchiosi, volete finirla? Ma questo è un parlamento di banditi! (_Un subisso di applausi pone termine alle baruffe_) BEZOLONE (_battendo la gamella_) Avanti, e non interrompete: chi vuol parlare, domandi la parola. Dicevo dunque che d'accordo con i nostri confratelli Don Pinta, Gamolone, Tregoss e Gamba d'bosc, ci siamo costituiti in comitato provvisorio, e abbiamo stabilito di radunare qui nella brughiera i colleghi mendicanti, indigeni e girovaghi, ossia camminanti. GAMOLONE Abbasso i camminanti! BEZOLONE Domanda la parola. GAMOLONE Me la prendo: sono del comitato, e ripeto: abbasso i camminanti! ci fanno concorrenza: vadano ad esercire al loro paese! (_applausi_) DON PINTA (_gridando_) Amici: non solleviamo quistioni regionali! accattoni, mendicanti e camminanti sono variazioni di famiglia. Sopra tutto... (_con enfasi_) siamo Italiani! (_scoppiano fischi e invettive_). L'ANARCHICO Impicchiamolo questo Don Pintone! VOCE È venduto alla borghesia! Abbasso Don Pinta! Viva la rivoluzione! (_I membri del Comitato Gamolone, Gamba d'bosc e altri salgono sul monticolo a consulto con Bezolone. Abbasso il putiferio continua. Soltanto Maometto in disparte se ne sta indifferente_). TREGOSS (_mentre Bezolone batte sul gamellino, avanza alla sbarra; i colleghi si sbracciano con gesti e tss--per ottenere silenzio--finalmente Tregoss parla con voce gozzuta e sibilante_) Amici... colleghi, domando la parola (_voci_: bravo Tregoss)... e dico così non si fa niente. Ci vuole un presidente di autorità per dirigere, e... (_Vorrebbe dir altro, ma gli scappa il fiato nel gozzo con sibili e ragli da somaro_). VOCI (_parodiandolo_) Ih oh... Ih oh! (_Risata clamorosa: Tregoss si ritira mortificato_). BEZOLONE Sì... un presidente ci vuole. E poichè abbiamo l'onore di avere fra noi il sapiente collega Maometto, propongo di eleggerlo presidente per acclamazione, e lo invito e salir qui sulla tribuna per illuminarci con la sua parola sui nostri diritti civili, politici... patriottici... ed anche nazionali! (_Grandi applausi--tutti si voltano verso Maometto--i più pronti lo afferrano portandolo in trionfo alla tribuna fra le grida di viva Maometto_). MAOMETTO (_dall'alto, spiccante nella projezione lunare, avvolto nel suo paludamento statuario, testa argentea, chioma biblica a lunghi trucioli, guarda come trasognato la folla suggestionata dall'imponente figura, e fattasi silente in rispettosa attesa_). UN GOBBETTO (_al pezzente suo vicino_) Chi è quel can barbone? L'ALTRO (_piano_) Quello lì? Nessuno ne sa nulla. Lo chiamano Maometto, sarà forse un ebreo. Ma è una testa fina... dicono che sia stato professore. Ha girato mezzo mondo, e per scienza ne sa più del Consiglio dei Dieci. VOCI Parli Maometto. MAOMETTO (_volge un'occhiata da dominatore sull'uditorio; si toglie e butta in terra il cappellone alla Segantini, si liscia la cascata bianca della criniera, e dice con voce dolce e penetrante_): Io sono, o fratelli, un randagio cosmopolita, ossia uno di quei camminanti che qualcuno di voi vorrebbe cacciare da questo convegno. VOCI No, no. Parla tu. Viva il nostro presidente! MAOMETTO (_calmo_) Vi ringrazio, figliuoli miei, dell'onore, e poichè lo desiderate, vi dirò il mio pensiero. Ma prima, vi prego di concedermi un momento di raccoglimento. Intanto, accomodatevi. (_Come ubbidendo ad un comando, tutti siedono o si accoccolano alla meglio, scambiandosi sottovoce impressioni e commenti_). MAOMETTO (_dopo breve pausa potendosi, avanza un passo, protende le mani, e subito si fa intorno un cerchio di silenzio_) Amici miei, ascoltatemi: io sono un sognatore solitario, o come direste voi un lunatico. Amo la moderazione negli atti e nella parola, perciò vi dico subito, non vi aspettate da me un'arringa tribunizia da barricate (_pausa_). Prima però di entrare in argomento sui titoli di benemerenza che noi vantiamo di fronte a quel caos da manicomio, così detto «Consorzio Civile», è bene che sappiate perchè siamo adunati qui in quest'aula senza pareti sotto al lampadario lunare. La Camera del Lavoro ci ricusò l'ospitalità del suo salone, rispondendo alla richiesta del nostro comitato che noi siamo degli intellettuali aristocratici (_rumori, proteste e fischi_). Ebbene fratelli io vi dico che la obiezione è giusta! (_voci_: oh... oh!) Sì. (_con più forza_) Sì, ripeto: è vero! Noi siamo aristocratici perchè la nostra stirpe vanta delle origini illustri fin dalla più remota antichità: abbiamo noi pure i nostri eroi degni di poema e di storia. Dal nostro divino archetipo Omero, a Diogene: da Belisario a San Francesco d'Assisi: da Camoens al vagabondo Gorcki, si svolge una plejade di grandi figure che illustrano la marcia della nostra gente attraverso ai secoli! E siamo altresì degli intellettuali, perchè ribelli, per un nobile stigma della nostra psiche, alle costrizioni, alle discipline, alle tirannie convenzionali che tengono i volgari, gli inferiori, nella servile quadratura del casellario professionale. Noi non mercanteggiamo, non mettiamo a prezzo l'opera nostra; non abbiamo nè propine, nè stipendi, nè salario. Liberi lavoratori dei crocivii e delle cantonate, noi accettiamo l'offerta senza discutere: il fisco e gli esattori non sono mai molestati dai nostri reclami: noi non abbiamo debiti, e siamo invece creditori dell'umanità. La nostra situazione economica e morale, è splendida! (_segni e mormorii di stupore_). IL GOBBETTO (_sottovoce al suo vicino_) Ma costui è scappato dal manicomio! IL VICINO (_piano_) Zitto. Hai dei debiti tu? no? e nemmeno io; dunque siamo dei signori! MAOMETTO (_riprendendo_) Il mondo grasso, grosso e ignorante ci sfregia coi più spregevoli appellativi chiamandoci: pezzenti, accattoni, camminanti: ma, disse Machiavelli, _il mondo non è che volgo_! La divina Atene ci chiamava _le Rondinelle_, e sono giunte fino a noi le strofe della nostra canzone. La verità che noi coi nostri cenci, siamo degli idealisti: siamo la poesia della libertà in atto, superiori agli appetiti, agli istinti inferiori del tornacconto... e allora si capisce che i socialisti non vogliano saperne di noi e ci chiudano in faccia la porta della loro casa! (_mormorìo_). L'ANARCHICO Ehi là! non vedi che con questa cantafera addormenti l'assemblea? (_applausi_). VOCI Basta! È la predica del curato. (_risata_). (_Clamori. Bezolone batte il gamellino_). MAOMETTO (_con calma_) Comprendo che per voi, questo è fumo!... STENTORE Parlaci dell'arrosto. TREGOSS Con patate! MAOMETTO (_con tono più alto_) Ed ecco l'arrosto. (_squassa la chioma e attacca più deciso_) A noi! La nostra benemerita classe soffre più di ogni altra le conseguenze della guerra; guerra che noi non abbiamo approvato! (_consensi_) Nel marasma a cui siamo ridotti, non si va più avanti nemmeno con le stampelle; e però vi dico: proletari delle cantonate, lavoratori del vagabondaggio, unitevi! (_applausi_) La nostra età dell'oro è finita: e poichè tutti si muovono, si coalizzano e insorgono, reclamiamo anche noi il nostro diritto alla vita, contro questo porco truculente caro-vivere che strozza la nostra patriottica industria! (_scoppio fragoroso di applausi_). (_Crescendo_) I nostri titoli, i nostri affari di borsa pubblici e privati, segnano diagrammi capovolti a precipizio sotto la linea dell'equatore. Noi abbiamo dato fondo a tutte le riserve, a tutti gli accantonamenti del nostro bilancio, e consumato le ultime scarpe per la patria. E la patria che regala gli aumenti del caro-vivere a scala mobile ai suoi impiegati, ai figli degli impiegati, agli amici e alle amiche degli impiegati, lascia sul lastrico noi proletari podistici, noi lavoratori camminanti, noi vagabondi, apostoli del più puro e disinteressato idealismo! (_applausi_) Noi borsisti della bisaccia, posti fuori del ruolo dei tiraborse o borsaiuoli ufficiali politici e civili, ci aggiriamo come rifiuti sociali in quel _vuoto_ che la natura abborre! Senza ragioni di sangue, noi stiamo imparentandoci col Conte Ugolino: mancandoci l'entrata, non avremo più uscita, e saremo perciò costretti a chiudere gli sportelli! (_applausi_). (_animandosi_) Ditemi: conoscete ancora voi per prova una fetta di prosciutto, o almeno una _piccola_ con spinacci, o una vile polpetta? Queste cose sembrano a noi dei sogni: le vediamo, sì, nelle vetrine dei pellicani esercenti, come si vede la luna nel pozzo. Da quanto tempo non avete più fatto un _dejeuner_ alla forchetta? STENTORE È più facile a noi farlo sulla forca! (_risate_). MAOMETTO Da quanto tempo avete gustato un sorbetto? L'ANARCHICO D'inverno dormendo sotto i portici. MAOMETTO E ancora: dove siete ridotti a prendere i vostri pasti? UN PEZZENTE Di solito io pranzo al Ligure... nel _de hors_ del giardino. UN ALTRO Io d'estate pranzo al _Parc des Ambassadeurs_, dietro la cucina, dove si gettavano i rifiuti. Dico gettavano perchè adesso non si trova più un accidente. GAMOLONE Si capisce! adesso i cuochi ricucinano i rosicchi e li fanno rimangiare in _paté_ e _vol au vent_ agli eleganti _abituès_. (_Questa sortita suscita una viva ilarità e scambio di lepidezze. Applausi, fischi, voci e grida che imitano il verso di ogni animale. Si risveglia il coro dei cani. Nasce un putiferio nell'uditorio. Alcuni minacciano di venire alle mani. Bezolone batte il gamellino urlando_ «silenzio mascalzoni». _Gamolone e gli altri del Comitato tentano di placare il tumulto_). STENTORE (_urlando_) I carabinieri! (_La geniale trovata tronca di un tratto ogni contesa; il timor panico sgomenta l'uditorio, molti si apprestano a fuggire_). MAOMETTO (_cogliendo il buon momento_) No, no amici, niente carabinieri: è uno scherzo. Ricomponetevi (_pausa. Silenzio_) Ma vi dico che bisogna comportarsi da gentiluomini, e che se continuate quest'ignobile gazzarra, io vi pianto, e me ne vado! (_riprendendo il suo cappello_). VOCI (_da ogni parte_) No, no, rimani: viva il presidente! MAOMETTO Sta bene; ma vi raccomando, siamo logici e composti almeno noi che siamo la parte più pura e disinteressata della cittadinanza! E veniamo al quia. Noi per la stoica frugalità del vivere, per la restrizione socratica dei nostri bisogni, siamo superiori agli allettamenti del fasto e dei piaceri: noi ripudiarne come nocive le cose superflue. Son certo che nessuno di voi ha una villa, un palco al Regio, o una Limousine. Ostriche, selvaggina, tartufi, ecc., sono banditi dalla nostra austera disciplina; e se qualcuno di voi avesse l'abitudine di pasteggiare con champagne, lo pregherei di sfrattare dal nostro sodalizio. Ordunque, io dico che per i nostri bisogni, noi non mandiamo il paese in malora. Siate superbi di voi, della vostra ricchezza... L'ANARCHICO (_scattando_) Ah, can barbone, tu ci prendi in giro! VOCI Silenzio. Alla porta! MAOMETTO Un momento... non pigliatemi nelle parole! Ripeto: siate superbi della vostra ricchezza morale. In questo senso io affermo che noi siamo dei milionari! (_commenti_) E veniamo a concludere: Noi vogliamo proclamare i nostri diritti di cittadini e di patriotti in faccia agli usurpatori! (_applausi_) Ma per riuscire, noi dobbiamo ridurre al minimum i postulati delle nostre rivendicazioni. Noi non facciamo questione di automobile, nè di alloggio, nè di qualsiasi superfluità voluttuaria. Orbene, che cosa vogliamo noi? VOCI GENERALI Sciopero... sciopero! MAOMETTO Calma, calma fratelli, che Dio vi benedica! Sciopero? Va bene: ma bisogna prima formulare il programma dei nostri desiderata. Nominare una commissione di vecchi e provetti mendicanti coscienti dell'arte e delle inprescindibili esigenze professionali. Però badate: l'arma dello sciopero ha messo tanto di barba: è uno strumento di carattere esclusivamente popolare: adottato fuori del suo ambiente dalle classi superiori, diventa una coercizione antipatica, una forma di ricatto sociale che sfata ogni buona ragione. Noi, per esempio, siamo un ceto aristocratico... VOCE Aristocrazia dei pidocchi. (_Risa. Clamori_). ANARCHICO Va in galera, caprone! RATTONE (_beffardo_) Signor marchese Bezolone, domando la parola. GAMOLONE (_beffardo_) Dagliene due all'illustrissimo conte Rattone, e una _cicca_ per turargli la bocca! (_In mezzo al frastuono, si svolge una pantomima di riverenze e scappellate, chiamandosi l'uno coll'altro ECCELLENZA--MARCHESE--DUCA e smorfie e lazzi di caricatura che fanno sghignazzare la brigata.--Bezolone batte la gamella_). MAOMETTO (_sempre calmo_) Insomma, si può finire? STENTORE (_con urlo poderoso_) Lasciatelo parlare. (_Levando il randello contro un gruppo di litiganti, ottiene un po' di silenzio_). MAOMETTO (_come niente fosse_) Ho detto che siamo aristocratici, e mantengo la parola. Scarpe rotte, scamiciati, sbrucati... e che perciò? i nostri cenci sono pergamene, sono titoli e diplomi della nostra nobiltà. San Francesco si presentò alla corte del Soldano senza camicia. Non avete sentito che la guerra ha capovolto i valori sociali, valorizzando uno spazzaturaio più di un filosofo, un pompiere più di un presidente di cassazione? Ora io dico: se gli uomini più degni, se le classi di maggior merito oggi sono tanto in basso, noi che siamo gli ultimi, possiamo considerarci come i primi. E perciò ripeto, gli scioperi li possono attuare le maestranze fabbrili, ma ledono il decoro delle classi intellettuali come la nostra, e quel che è peggio, aprono la breccia al crumiraggio. Ricordate ciò che avvenne quando scioperarono i camerieri? Gli avventori dei caffè, dei bars, dei ristoranti, indispettiti per l'intralcio delle loro abitudini, sostituirono i camerieri; per cui, se il nostro bravo Bezolone, se Don Pinta, se Tregoss, se voi tutti a quei giorni volevate regalarvi un piatto di fagiani tartufati, o un intingolo di suprèmes all'Hôtel d'Europa, dovevate cucinarli con le vostre riverite mani, e fare da camerieri a voi stessi, (_mormorìo_). (_Fra due, in disparte, sottovoce_). IL PRIMO (_all'altro_) Che cosa son questi _suprèmes_? IL SECONDO Mah!... credo che siano cocomeri. MAOMETTO Dunque, sciopero, no... o almeno per ora lasciamo la cosa in pendente. Ma, o signori mendicanti e vagabondi, è mio dovere prevenirvi che due gravi minacce pendono sul vostro destino. La prima è che oltre alla revisione dei soprapprofitti di guerra, verrà presto decretata l'imposta progressiva sul reddito. L'altro pericolo anche più grave per la vostra industria, è che il governo sta maturando il progetto di monopolio dell'accattonaggio. E allora, tutti sul lastrico!... Pensateci su: e con questo monito, dichiaro aperta la discussione. (_Maometto siede alla turca e accende la pipa, e se ne sta passivo e indifferente_). GAMOLONE (_sale rapido alla tribuna_) Come membro del comitato domando la parola, e dico: «in primis ed antimonio» noi dobbiamo reclamare dai nostri clienti l'orario delle otto ore. Mi sembra che per un onorabile mendicante lo stare alle cantonate dalle otto alle dodici, e dalle due alle sei, sia già un bel tirocinio! TREGOSS Bravo merlo! e nelle altre ore i crumiri ci spilleranno la clientela! VOCI Abbasso i crumiri! Viva Lenin! GAMOLONE (_concitato_) E noi diffideremo la cittadinanza dal fare l'elemosina fuori d'orario! L'ANARCHICO Protesto contro la parola _elemosina_ che ci umilia! VOCI Giusto, ben detto... bravo! RATTONE Mi associo anch'io alla protesta. GAMOLONE (_ironico_) Eh! se tu Rattone vivi di rendita! RATTONE (_con forza_) Non vivo di rendita! Non sono un parassita io! TREGOSS I parassiti li hai nella camicia! (_si ride_). RATTONE (_sconcertato_) Non ho la camicia: non l'ho mai avuta... e me ne vanto! L'ANARCHICO Anch'io! La vera coscienza proletaria è senza camicia! perciò ripeto che la parola _elemosina_ è uno sfregio. Il mendicante ha il diritto di chiedere, e i signori hanno il dovere di dare! GUBERNA Ma il guaio è che se i signori non dànno nulla, il nostro diritto va in fumo. L'ANARCHICO Questi sono argomenti da codino rammollito sulla porta delle chiese, come te! Intanto io protesto anche per la parola _signori_. Che vuol dir ciò? Ognuno ha il diritto di chiamarsi _Signore_. VOCE E magari anche papa! (_clamorosa risata_). ANARCHICO (_sconcertato e rabbioso_) Orsù non fatemi dell'ostruzionismo! Propongo all'assemblea che d'ora innanzi si dica «passanti» invece di signori, e «tariffa» invece di elemosina. GAMOLONE Presenta un ordine del giorno. ANARCHICO (_seccato_) Non ho la carta. STENTORE Scrivilo sopra un biglietto da mille! (_Un'ondata di ilarità seppellisce la questione. L'anarchico si ritrae irritato, brontolando_). BEZOLONE (_battendo la gamella_) Non divaghiamo, signori! E tu presidente Maometto, richiamali all'ordine. (_Maometto, scuotendosi si alza lento con gesto indolente, guardando l'assemblea in subbuglio. L'anarchico alle prese con un gruppo grida:_ Vigliacconi! _Volano ingiurie, pugni e bastonate nel mucchio. Qualcuno cade nella mischia. Invano Stentore tenta di dominare il tumulto. Bezolone, Tregoss e Gamolone cercano di calmare i contendenti. Maometto rimasto solo alla sbarra, guarda con aria mesta quel guazzabuglio, e poscia stendendo le braccia in atto di invocazione, maestoso nel raggio lunare che lo illumina come in un'aureola, invece di parlare, canta con voce squillante la serenata del Don Pasquale:_ Com'è gentil la luna a mezzo april! _La geniale trovata, calma il putiferio. La curiosità, l'incanto della bella voce calda di passione, si diffonde come una luce sull'ignobile baruffa. L'uditorio affascinato, conquistato, prorompe in furiosi applausi_). MAOMETTO (_invocando il silenzio col gesto, esclama con dolcezza_): Vedete, amici miei? Voi siete degli artisti perchè siete ingenui, primitivi! Sotto i vostri miserabili cenci, vibra un'anima ancora fresca, non guasta nè corrotta dall'egoismo del _malor civile_. O umili straccioni! Ecco, è bastato un soffio di bellezza, un contatto spirituale per farvi dimenticare le vostre miserie! Voi avete bisogno più di armonia e di concordia che di pane: ma la concordia non si raggiunge a pugni e a randellate. Vediamo di orientarci. Ho sentito che il collega detto l'anarchico si è mostrato contrario ai vostri propositi economici, politici e morali. Ebbene, sentiamolo senza violenze. Collega anarchico, avanzati, parla, esponi liberamente il tuo pensiero. Così si fa. ANARCHICO (_ancora scompigliato e torbido_) Ebbene, io dico che invece di perdersi in tante ciance, bisogna agire, farci ragione con le nostre mani. (_con enfasi_) I popoli sono stanchi di essere succhiati dai tiranni e dalla borghesia che beve il sangue dei poveri! La guerra l'hanno voluta gli affaristi per pompare nella greppia! (_applausi_). (_Animandosi_) E i proletari e le loro famiglie per vivere, devono mangiarsi fra di loro, o morir di fame... Ed io dico: basta! Bisogna agire... voi invece siete dei vigliacchi... (_mormorìo_) Sì, lo ripeto, vigliacchi buoni non altro che a stendere la mano. (_perde la bussola_) Ed io lo dico a te Maometto, presidente dei pidocchi... lo dico a tutti:... Voglio la dinamite! (_la sfuriata cade nel silenzio_). MAOMETTO (_con fine sarcasmo, dopo una pausa_) Dunque tu anarchico vuoi la dinamite? E va bene... mi dispiace soltanto di non averne, che per mia parte, te la darei subito! (_La botta è da tutti compresa, applaudita, e l'anarchico sepolto col suo livore in un'omerica risata_). GUBERNA Domando la parola! VOCI Guberna! bravo Guberna! parli Guberna! GUBERNA (_un po' sgomentato dell'ovazione, avanza mingherlino, guizzante come una biscia. Sale alla tribuna stemprandosi in riverenze. Quando la gazzarra dei frizzi si cheta, Guberna strizzando in giro un'occhiata furbesca, comincia con la calma di chi sa mettere d'accordo la lingua col pensiero_): Amici! con licenza parlando, comincio col dire che io rispetto il nostro presidente Maometto, la sua sapienza, e la sua chioma da vecchio Simeone. (_Si ride_) Ma confesso che mi sono indigesti i suoi oremus. Nella mia antica carriera di vice sacrista, ne ho sentiti troppi degli oremus, e basta. Caro e illustre presidente, tu vieni a cantarci _miserere_ invece del _sursum corda_; perciò osservo che noi proletari autentici, con licenza parlando, abbiamo bisogno di ben altro! Infine, cosa vogliamo noi? VOCI Sciopero... sciopero! GUBERNA Eh no, amici. In questo sono d'accordo col nostro illustre presidente; e con lui sono anche contrario ai propositi violenti del signor anarchico che vorrebbe prendere la luna per la coda (_risa_). Perchè voler distruggere i cosidetti signori, gli è come distruggere le materie prime della nostra industria professionale. Quando non ci fossero più i signori nostri clienti, con licenza parlando, a chi domanderemo noi l'obolo... ossia la _tariffa_? (_mormorìo di consenso_). Ma tornando all'idea dello sciopero, osservo: se noi abbandoniamo le posizioni, la valanga dei crumiri, veri o finti mutilati di guerra, prenderà i nostri posti. Questo già si è detto: ma c'è di peggio: a quel che sembra, si farà una legge per concedere agli invalidi e mutilati di guerra il diritto di questuare per le vie e per le piazze... (_declamatorio_) E sta bene, ed è giusto che la patria riconosca i generosi che hanno versato il loro sangue... VOCI INSORGENTI Abbasso la guerra! morte alla guerra! GUBERNA È inutile, cari miei: ormai il terremoto è passato. Io dico dunque che la concorrenza dei feriti e degli invalidi di guerra, abilitati dallo Stato a mendicare, sarebbe terribile per noi; specialmente per gli sciancati, per i gobbi come me, per i gozzuti come il collega Tregoss, perchè non potremo certamente dare ad intendere ai signori, ossia «passanti», che la gobba l'abbiamo buscata in trincea! Per cui ora che è finita la guerra mondiale comincia per noi la guerra intestinale, ossia guerra civile fra lo stomaco e la fame. VOCI Bravo Guberna! (_applausi_). GUBERNA Siamo dunque pratici, e vediamo di uscire alla meno peggio da questa crisi professionale, salvaguardando la dignità della nostra classe. Intanto dobbiamo subito stabilire che l'elemosina,... ossia tariffa, sia portata al minimum di due soldi, e che nelle solennità di Pasqua, Natale, ecc. e nelle celebrazioni patriottiche la... tariffa obbligatoria sia di un nichelino. (_scroscio di applausi_). TREGOSS E se i passanti non dànno niente? GUBERNA (_un po' sorpreso_) Questa è un'altra questione. Ma urge soprattutto divulgare con pubblico manifesto i nostri _desiderata_ che sarebbero i seguenti: Tariffa normale soldi due: festiva quattro. Orario di otto ore. VOCE E Sabato inglese. GUBERNA Eh no. Noi non siamo nè impiegati nè salariati, ma lavoratori indipendenti. Noi non siamo inglesi. VOCE Tu sei gobbo. GUBERNA (_pronto_) E sia! ma gobbo nazionale! (_risata_). Questo è importante: diritto di multare del doppio quei farabutti che ci dànno bajocchi fuori corso. VOCE Ma come potremo noi ciechi distinguere le monete? GUBERNA (_furbo_) Andiamo, via! non è a me che darete ad intendere di essere tutti ciechi! È proibito ai mendicanti di carriera di raccattare i mozziconi e le _cicche_. RATTONE Proibizione superflua! Dopo l'aumento dei tabacchi non si trova più una _cicca_ neanche al Parc des Ambassadeurs. GUBERNA Riposo festivo secondo il calendario dei pubblici uffici, e delle scuole. Con diritto da parte nostra di riscuotere la... tariffa festiva all'indomani. Obbligo al comune di abbondante innaffiamento per non esporci nelle ore di lavoro al polverone delle automobili e dei camions. E questo è capitale... ANARCHICO Abbasso il capitale! GUBERNA Oh santo Dio! Non è il _capitale_ come intendi tu. ANARCHICO La solita antifona! Capitale e lavoro! due fratelli come Caino e Abele. Uno va in carrozza, l'altro a piedi, senza scarpe! (_rumori assordanti_). BEZOLONE (_battendo la gamella_) Silenzio, perdio! Credete forse di essere alla Camera dei deputati? Lasciatelo parlare. Ognuno può dire quello che vuole. ANARCHICO E allora... io dico che è una porcheria... BEZOLONE Che cosa? ANARCHICO Il capitale. BEZOLONE (_ironico_) E tu sputala via, e finiscila! (_Risate_) (_a Guberna_) Puoi continuare. GUBERNA La nostra lega dovrà aderire ed appoggiarsi, con licenza parlando, a qualche partito politico affine al nostro programma, e orientarsi verso una direttiva per l'imminente riforma elettorale. STENTORE (_stufo_) Ma va ad affogarti col tuo alfabeto! Ne hai più delle asinerie da cacciar fuori? Ma chi di noi si infischia delle riforme? Sei tu, doppio gobbo, che reciti _l'oremus_! (_all'uditorio_). Questo strofinaccio da sacristia è un bolscevico venduto ai preti per imbrogliarci. E tu, presidente Maometto, ordina agli uscieri di espellere dall'aula questo beccamorti, altrimenti io lo prendo a calci nel portacoda! (_clamorosa ovazione_). (_Guberna fiutando la procella cerca di svignarsela scendendo dalla tribuna, ma una tempesta di scappellotti lo manda ruzzoloni. Si accende nel mucchio una baruffa babelica, uno scambio di ingiurie e di botte anonime. I membri del Comitato si affannano per dividere i contendenti. Mentre abbasso va sedandosi il tumulto, Maometto rimasto solo alla Tribuna come Mosè sul Sinai; immobile come un bronzo, illuminato dalla luna, si leva lentamente protendendo le braccia supplici in atto di fervida implorazione, emettendo alcune note musicali. La voce, l'atteggiamento statuario, solenne, attrae l'intenzione della turba che si fa silenziosa come al cospetto di un rito, nell'attesa di un mistero._) MAOMETTO (_con dolcezza_) Fratelli miei: io vi rivolgo per l'ultima volta la parola, e voi dovete ascoltarmi, e comprendermi (_pausa_). Voi siete, senza saperlo nè volerlo, siete gli apostoli di quella virtù comandata dalla natura che è l'_astinenza_: se voi poteste comprendere la bellezza, la nobiltà della vostra missione, sareste fieri, orgogliosi del vostro stato. Voi siete fragili fiori palustri germogliati nella pozza putrida della concimaja sociale. Esteti dell'indigenza e del vagabondaggio spirituale, voi non comprendete voi stessi, così come i fiori ignorano la loro bellezza. La serenità incosciente, la poesia interiore, il grande respiro della libertà, infioravano di grazie la vostra passiva nullità. Ora non più; ormai siete voi pure infetti della tabe che inquina tutte le classi, attratti fatalmente nella zona torbida della politica affaristica, voi perdete le ale di crisalide per trasformarvi in miserabili insetti roditori. E allora quando, per via dei vostri orientamenti politici, fra un secolo, sarete pervenuti ad affermarvi ed a consolidare la conquista ideale del pane e salame, voi avrete cancellato la nobile impronta della stirpe e soffocato il genio della specie, avrete perduto con la libertà la serena inconseguenza dell'_io incosciente_, ossia dell'ignoranza naturale, e la grande e bella poesia del _nulla contemplativo_! Io ho ascoltato la vostra voce, i vostri ragionamenti: Ahimè, non una favilla, non un palpito della vostra anima antica! in voi non ha parlato che il ventre! Oh miserabili amici, voi rinnegate la vostra invidiabile fortuna... voi vi avviate al suicidio! Comprendo il gesto selvaggio e delirante dell'anarchico, ma non comprendo il vostro minuscolo egoismo di formiche rivoluzionarie, alla caccia delle briciole. È tramontata l'èra della giocondità: i focolari domestici vanno spegnendosi: il lezzo della strada invade i tranquilli rifugi! Un tempo si cantava nei campi, nelle officine; la vita era semplice e gaja: ora invece sembra che l'umanità si abbeveri di arsenico: gli artigiani son fatti cupi di livore e di odio: i villici viventi un tempo come rondinelle alla rustica gronda, diventano gufi, assiuoli e barbagianni rapaci. In voi, o mendichi vagabondi, si rifugiava l'ultimo raggio dell'antica serenità, ed ecco che ora state distruggendo la bella tradizione che fu nei secoli la nostra gloria! E l'opera vostra è altresì antipatriottica e antinazionale, perchè tende a cancellare quel primato di accattonaggio artistico e vagabondo che era vanto incontestato del nostro paese! (_mormorìo sommesso di commenti_). (_Maometto si arresta e guarda fisso e severo da quella parte, e subito si fa un rispettoso silenzio. Riprendendosi_). C'è chi susurra fra voi? comprendo bene che forse parlo al vento, e vi son grato se non altro della deferente attenzione che mi prestate. So quello che vorreste; so che vi rode l'anima un oscuro impulso di violenza contro la vostra sorte: voi sognate dei rivolgimenti chimerici, la manna nel deserto della vostra esistenza. Ma non illudetevi (_con tono di inspirato_). Ecco! io vedo nello specchio profetico il vostro destino, e vi dico che non ci vorrà meno di un secolo per cancellare le impronte gentilizie della nostra stirpe... Nel frattempo, figgetevelo bene in mente, nel frattempo, a furia di progressi intensificati ed accelerati, l'umanità si dividerà in tre grandi categorie. La prima andrà in automobile aereo. La seconda al manicomio. La terza al ricovero di mendicità... o in galera! Addio! _Ciò detto Maometto riprende cappello e bastone, scende maestoso dalla tribuna, e attraversa lentamente la scena. La turba estatica gli fa largo rispettosa; molti lo inchinano, lo salutano; egli passa fiero e dilegua lontanando. Tutti si protendono verso di lui come allucinati. Maometto già lontano lancia nel silenzio con voce squillante l'ultima strofe della Canzone: «poi quando sarò morto, piangerai, «ma richiamarmi in vita non potrai!»_ FINE. CORPUS DOMINI [Dal romanzo _Quando amore spira_ dello stesso autore.] ALLA SIGNORINA MARGHERITA ROSSI MIA CARA COGNATA Già dall'alba il campanone della cattedrale dindondava incessante, diffondendo un festoso clangore nella profonda chiarità dell'aere sereno, e chiamate allegre sulla città assonnata. Il sole lumeggiava di roseo il cocuzzolo del cupolone troneggiante come immane chioccia sulle case rannicchiate come pulcini sotto il suo ampio grembo. Il piazzale del tempio era quasi deserto; nelle conifere del _parterre_ centrale chioccolavano i passerotti, e la fontana ancora nell'ombra, zampillava solitaria effondendo intorno un fruscio serico e umori di frescura. La brezzolina mattinale alitava nei fogliami, e scuoteva i drappelloni dei grande velario già teso fin dalla vigilia per il passaggio della processione. Il cielo sfondava in una chiarità azzurrina che stancava gli occhi; enormi batuffoli di nuvoloni biancastri e soffici come spuma veleggiavano maestosi navigli dell'aria, beccheggiando verso le alpi. La natura era tutta desta in un fremito di vita e di colori. La vetusta cattedrale addobbata con festoni e drappi festerecci a colori chiassosi, vecchia aja inghirlandata, sorrideva nelle grinze secolari della sua faccia ronchiosa, pregustando la letizia di accogliere nell'amplesso delle sue grandi arcate la propaggine dei suoi diocesani, chiamati, sospinti a torme dal festoso clangore del campanone, alla grande solennità. E il campanone alto nello spazio, rombava clamando con ululato lungo incessante: «Don don--Destatevi cittadini, donne, fanciulli, già alto è il sole, come alta è la solennità di questa giornata sacra. Levatevi, risciacquatevi, azzimatevi coi vestiti della festa, ripulite, lustrate i vostri marmocchi, e venite, venite a me come per lunga sequenza di anni e di secoli convennero riverenti e solleciti i vostri maggiori. «Venite, accorrete a torme, o bambini; il mio squillo ha chiamato, radunato intorno a me i vostri padri, i vostri nonni, gli avoli delle più remote generazioni: tutti sono passati al mio piede, piccini come voi, con le vesticciole fiammanti, e il candelotto acceso nella luce del sole, cantando osanna, spampanando fiori sul passaggio dell'arcivescovo. «Sotto le arcate del cupolone, i vostri padri, i vostri nonni, furono battezzati, cresimati, benedetti, ed uniti negli sponsali. Il mio bronzo ha cantato le loro feste, ha segnato in squallide note il loro funerale: tutti passarono di qui per nascere, per vivere e per morire! _Nascentes morimus, finis ab origine pendet_». E dopo una breve sosta il campanone lancia nell'aria altre strofe squillanti. «Don don don... _sic transit gloriae mundi_. La vita è triste e plumbea per se stessa, per le sue miserie: le delusioni, i dolori intristiscono ogni cosa; bisogna far del chiasso, dello strepito, delle feste, stropicciarsi, accomunarsi in folla per stornare l'uggia squallida delle malinconie, e sentirsi vivi. «Don don: _sursum corda_, e rasserenatevi o miseri mortali; tutto muore ma tutto rinasce e si rinnovella nel flotto perenne della vita. Librato da secoli nella gloria intangibile dei cieli, io vi contemplo, vi abbraccio, vi amo tutti come miei figliuoli. «Ogni anno dai paeselli, dai casolari sparsi nel vasto circuito della mia diocesi, al festoso sbatacchiare del mio battaglio, accorrono a torme contadini, villanelle e marmocchi, sfidando la sferza del sole, per ammirare la processione, e vedere il Vescovo in pompa magna che passeggia per le strade in mitria, in piviale e pianelle come fosse in casa sua. «Venite, figli miei!--Io ho veduto i vostri antenati di secoli e secoli sfilare coi loro bizzarri costumi bigherati e contigiati: ho veduto rifulgere al sole gli elmi, le corazze, le picche medioevali; ho sonato, ululato a stormo come belva ferita nei giorni cruenti delle scellerate lotte fratricide; ho tuonato e cantato l'inno della pace nei giorni benedetti della riconciliazione. «Don don--il mondo va così fra un alternarsi di bufere e di quiete; godetevi le feste che nella vita sono poche e brevi. Io vedo le cose dall'alto, ho la vista grande, l'esistenza umana è un breve soffio: ogni essere, ogni forma passa come larva, e dilegua nel nulla. «La solenne processione incomincia con suoni e canti festosi sotto le arcate del tempio, procede e si snoda nella gloria del sole, e in breve giro di anni lontanando, dilegua gemendo in miserere fra i cipressi del camposanto che io vedo dall'alto del mio padiglione spalancato nel cielo. Ma non vi sgomentate, figliuoli miei; la natura vive eterna; ella elabora le nuove messi nel sacro grembo della terra e ricompone e restituisce ogni cosa alla vita. «E tornerete anche voi, o buoni vecchierelli, nel molteplice riflusso della vostra propaggine; è sempre lo stesso sangue che rifiorisce con perenne ricorso, è sempre la stessa polpa che dall'ombra dei cipressi ritorna al sole, alla vita, per le vie ignote della superna legge. «_Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque_. «Don don--avanti, bambini! è la grande giornata dell'abitino nuovo, del risotto giallo, della gazosa e del sorbetto: oggi tutte le campane suonano a festa, tutte le padelle friggono. Avanti così; morto un vescovo ne fanno un altro, e la solennità del Corpus Domini ritorna ogni anno, come tornano le messi nei campi, come tornano le rondinelle e le nidiate dei passerotti, come ogni anno il sole di primavera ride sulle mie grinze antiche e squaglia il turbante di nevi che il calaverno posa sul mio cocuzzolo. «Don don--così ogni cosa nell'universo nasce, tramonta, si ricompone e ritorna con alterna voce: _putrescat ut resurgat_; così ogni ora, ogni giorno, ogni anno, per sempre: per omnia _saecula saeculorum_!» * * * * * Gigio Rudella, nativo di Villalbana, ma raffinato _viveur_ vellutato di tutte le eleganze estetiche internazionali dei grandi ritrovi mondani, si aggirava in quell'ora mattutina nei pressi della fontana, solo svagato, l'aria triste e stracca come di uno che non sappia che fare di se stesso. Gigio capitava di rado in Villalbana, una volta all'anno, per sbadigliare le feste natalizie presso una sua vecchia zia, unica superstite dopo lui della ricca casata dei Rudella. All'infuori di quella vecchierella, egli non aveva ormai altro vincolo che lo tenesse alla sua città natia. Il suo papà e la mamma gli erano morti nel giro di pochi anni, quando egli per la ragione degli studi universitari già stava a Torino, iniziando nei convegni brillanti la sua carriera di _snobista_ intellettuale. Rimasto solo, ricco assai, anima embrionale di artista e di poeta, aperta a molte cose, ma instabile e schiva delle laboriose conquiste, troncò gli studi letterari per darsi tutto alla vita elegante, per la quale pareva nato e fatto apposta. Dopo molti anni vissuti nel gran mondo alla caccia di tutti i piaceri, senza stabile dimora, ora che la maturità gli faceva sentire il peso e la noia della sua esistenza randagia, si era stabilito a Milano, alquanto disorientato del vuoto che gli si faceva intorno, e già nel presagio malinconico dell'uggia che lo attendeva nell'avvenire. In Villalbana era ormai come un'ombra, una memoria lontana: nelle sue rare e brevi soste non vedeva alcuno; stava in casa con la zia, o passeggiava solitario nei viali. Gli eleganti del paese lo ammiccavano rispettosamente come un'illustrazione del _chic_ internazionale; qualche antico conoscente lo salutava di sfuggita, affrettando il passo. Da alcuni giorni la zia, già malandata, si era aggravata repentinamente, e Gigio avvertito dai famigliari mentre stava disponendosi per un viaggio all'estero, dovette troncare ogni cosa e accorrere in fretta, e da tre giorni si aggirava disperso come un esule nell'ambiente minuscolo di Villalbana, aspettando gli eventi. La vecchia signora peggiorava senza speranza; quella notte Gigio aveva vegliato l'inferma, una veglia di ansie e di spasimi, lenta, infinita, piena di squallore e di neri pensieri come un castigo. In quelle ore di angoscia trascorse presso la vecchietta agonizzante nella penombra, egli aveva scontato come in un contrappasso dantesco tutte le allegre serate, i festini e le baraonde della sua vita mondana. La morte! egli non ci aveva mai pensato. Eccola affacciarglisi spettro gelido, inesorabile! Anche il suo papà e la sua mamma erano andati così; ma egli era giovinetto allora, e la vita aveva degli sfondi lontani pieni di promesse. Adesso invece che tristezza, che miserere gli premeva dentro l'anima assiderata! Verso il mattino l'inferma parve riaversi alquanto: il vano buio delle finestre che nello squallore notturno parevano occhi chiusi nell'eternità, si schiariva lentamente nel tenue biancheggiare dell'alba; il campanone lanciava le prime chiamate festive nell'aere sereno. La vita, il sole, il respiro! e Gigio, invece di mettersi a letto, era uscito all'aria libera per fuggire l'incubo che lo premeva, e si aggirava come naufrago scampato, nel _parterre_ del piazzale, presso la fontana il cui vivido fruscìo, e i freschi umori gli risciacquavano l'animo atterrato dalle tristi ombre di quella notte di espiazione. Da ogni sbocco di strada affluiva a gruppi, a stormi la gente del contado, con l'occhio imbambolato e nescio e il passo armentale: una filastrocca interminabile di donnicciole colle faccie bruciacchiate dal sole, spiccanti come bronzi nella stonatura della pezzola bianca che avevano in testa: marmocchi alti un palmo già vestiti come gli uomini fatti, bambine infagottate in sottane lunghe col grembiale ampio e la vita larga come le massaje. Frotte di contadini con le giacche nuove, il cappello lustro tutto di un pezzo, le faccie sudate e nere sul bianco delle camicie; una buglia, un serpentone vivo, variopinto, che dagli stradali polverosi del dintorno metteva capo per tutti i crocivii al piazzale del duomo. Sul _parterre_ erboso, nel fitto dei viali, nello spiazzo del sagrato, sulle ampie gradinate, nel vestibolo del tempio, dappertutto un formicolìo di gente, un rugliamento diffuso denso di chiacchiere, di chiamate. Gridi e pianti di marmocchi, urli di sorbettai ed acquaioli; un badanai babelico di voci di chiurli e sopra tutto il formidabile dindondare del campanone che sbatacchiava a distesa, lanciando nell'aere un rombo incessante di onde sonore. Sul piazzale i contadini acciocchiti dal chiasso e dal sole, sciamavano intorno agli acquajoli mangiando sorbetti da un soldo, e bevendo acque diaccie di tutti i colori. Le villane sedute sulle zolle erbose, o accoccolate, o in piedi addossate l'ima all'altra come branchi di pecore, mangiucchiavano aranci e paste dolci, berlingando tutte insieme come oche, sghignazzando in coro, levando un chiasso da pollajo con voci chioccie da capponi mal castrati. Talune allattavano liberamente i loro marmocchi sedute sull'erba sotto il cociore del sole, col seno aperto e fuori le mammelle, cacciando le mosche che contendevano la pastura al bimbo. I passeri spauriti starnazzavano frullando qua e là sui pennacchi alti delle conifere, guardando giù irrequieti con un occhio e poi coll'altro su quel bailamme di zotiche ciane che turbavano la quiete del loro bel giardino. Da tutte le cantonate sbucavano alla spicciolata le squadriglie delle confraternite con le cappe bianche, rosse, turchine; faccie dure, ronchiose, barbaccie spelazzate, sporche o incolte, stonanti grottescamente sui colori vivaci delle cappe. Ecco i _Battuti_, ceffi carnevaleschi barbigiati di unto di padella, col cappellaccio frusto slabbrato, ravvolti nel camicione bianco salavoso, corto così da lasciar scorgere le brache scure e le scarpaccie sgangherate. E poi i _Bernardini_ con le toghe nere da necrofori, i _Rocchini_ con le mantiglie spagnole di velluto violetto, orlate di argento, e cappello da romeo. Procedevano tutti sbrancati come armento, fendendo la zeppa di gente coi loro crocifissi, stendardi e candelabri lucenti nel sole, e dopo un po' riapparivano lontano sulla gradinata del vestibolo, e sparivano come inghiottiti nella gola nera del portone. Le contadine curiose, smettevano le chiacchiere, si alzavano in punta di piedi, allungavano il collo, e si segnavano in fretta al passaggio delle croci o magari anche dei candelabri. Il piazzale bugliava: sforacchiava la fittaglia scura della gente pigiata una picchiettatura di bambine bianco vestite, sparse a manciate come margaritine nel denso del maggese. Un clamore crescente di chiacchiere, di grida e sghignazzate; dall'arco nereggiante del portone della chiesa uscivano a intervalli zaffate armoniche, ripieni di organo e di canti, che si spegnevano come fiotto di marea nel denso bulicame della gente. Il sole di giugno arrazzava marosi infocati su quella polpa viva; nell'afa stagnante si levava un polverìo molesto; non un alito d'aria nel frascame. Le rondinelle posate sui fili del telegrafo parevano note di musica scritte sul cielo. Sotto il folto ombroso del viale circostante si addensava la popolazione cittadina, frotte di signore e di _totine_ in toeletta estiva a colori aerei, cappellini e pamele da bagnanti; una selva di piume, di frappe e svolazzi di nastri. Matrone gravi in solenne montatura, drappate come catafalchi; belle e giovani signore tirate, leccate secondo l'ultimo _chic_ della moda, col giubettino alla _figaro_, la taglia in su, e il seno sotto la gola; leggiadre, vivaci e birichine sartine più attillate ancora, e fresche. Dappertutto uno scintillìo di occhioni patetici e di occhietti furbi che sforacchiavano come stelle la densa ombria degli ippocastani. Più innanzi, fuori alla luce, un'altra zeppa di gente, una selva di ombrellini fiammanti al sole come luminaria fantastica, una massa irrequieta che dal viale si protendeva fino alla gradinata, riempiva il vestibolo e terminava nei grappoli di monelli arrampicati sul colonnato. Il resto del piazzale era tenuto tutto intiero dai popolani e contadini che non temono le cotture del sole. Passavano nuove fraterie. Gli _Sgraffianti_ con le cocolle giallo arancio; la congregazione di S. Spirito (detta _dei litroni_) celebre per le bevute fenomenali dei suoi confratelli; e poi le lunghe sequenze degli istituti di carità, trovatelli, ignorantelli, ricoverati. Lo sciame bianco e lungo delle orfanelle serpeggiò come ruscello di latte nella fitta del piazzale, sbucò sulla gradinata, e sparve ingojato nell'antro nero del portone. La comparsa delle _Marie_ suscitò un gazzurro, un cicaleccio ammirativo nella folla. Una schiera di belle giovinette fresche, colorite, olezzanti nel candore delle loro vesticciole di mussola; scarpettine di raso lucente, un nodo di nastro turchino alla cintola, le belle testine circonfuse da una nube di garze cilestri nottanti all'aria; una sciamata di libellule. Un ondeggiamento, un fremito serpeggiò nella folla, e tutte le teste, come fronde mosse da una raffica di vento, si rivolsero verso l'entrata maggiore. Le bambine bianche inquiete svolazzavano di qua di là come parpaglioni fra la gente, cercando di ricomporsi alla meglio. Il campanone tuonava concitato sul fragore di cascata frusciante nel ripieno del piazzale, le villane tutte in piedi, il collo teso, le faccie ansiose e curiose, si urtavano, si accavallavano levando un chiasso che pareva il quà quà di uno stormo di oche fuggenti. Le rondinelle spaurite da quel baccano, fuggivan scompigliando le note musicali dei fili telegrafici. L'avanguardia della processione appariva dal grande arco del portone. Gigio si abburattava fra la gente come un provinciale curioso; in quel fervore di vita, fra quei rumori assordanti, egli si sentiva rinascere, obliava sè stesso, trasportato, travolto nel badanai di quella polpa viva. Ecco laggiù sotto il vestibolo le bambine, si assembravano tutte in un mucchio. Il candido drappello staccava netto sul formicolìo nero della gente, sparpagliandosi giù per la gradinata come cascata di gelsomini. I mazzieri erano già scesi sul sagrato aprendo un solco nella folla, e lo stendardo episcopale, massiccio di fregi e dorature, precedeva maestoso e lento la prima filastrocca dei chierici seminaristi. L'immensa marea di teste e di ombrellini si acchetò. Dall'ampio grembo del tempio sbucavano le schiere allineate con defluvio uniforme; nell'arco del portone apparivano campeggiando sullo sfondo buio crocefissi aurei e candelabri e stendardi variopinti. Nelle fughe ombrate delle navate interne si allungava tremolando una selva di ceri accesi, e giù nello scialbore bigerognolo dello sfondo, nel fumigio degli incensi, allucciolavano i candelabri dell'altare maggiore disposti a spinapesce, come chiostre di denti fiammeggianti dentro una gola nera. I mazzieri fuori del sagrato sudano per aprire un solco fra la gente; coloro che tengono fronte in prima fila rinculano, quelli che vengono dopo, fanno altrettanto; e uno spintonamento si diffonde con risucchio di marea da un capo all'altro del piazzale e si ripercuote fin nella fittaglia elegante pigiata sotto gli ippocastani del viale. In quel sobbollimento il bel _parterre_ erboso pettinato e fiorito è in un lampo devastato dagli scarponi dei contadini, i quali rinculano come bestioni, e non hanno rispetto di nulla. La processione guadagna terreno, avanza, invade lentamente come acqua di rigurgito. Al passaggio dello stendardo tutti si scappellano, e si spiega ai fulgori del sole una sterminata distesa di gnucche e bitorzoloni da mandare in excelsis i Lombroso di tutta la terra e di tutti i tempi. Teste arrappate lustre e piatte come funghi boleti, boccie larghe rotonde dappertutto, còccole da cretino, brugnoccoloni enormi che parevano magli, e cocuzzoli bizantini acuminati; zazzere di ogni colore, spelazzate, incolte, setoloni irti, falciati come stoppia. Le donnicciuole del contado pigiate come le acciughe tentano indarno di inchinarsi e far riverenza al passaggio di ogni croce o stendardo; i vicini che hanno a tergo e di fianco le stringono, le tengono in piedi con certe rigidezze di ginocchia dure come incudini.--Le giovani già da un pezzo hanno imparato a ritirare ogni protuberanza di forme alle troppo ingenue distrazioni dei dilettanti di plastica che abbondano in quelle occasioni. Le prime file di chierici sono già nel mezzo del piazzale: dalla gradinata scendono le confraternite sbadigliando ciascuna le loro cantilene; un conflitto ingrato di toni e di tempi disparati: un putiferio babelico di salmodie che vanno insieme urtandosi come pecore sbrancate. Dall'ampio portone rigurgitano nuove squadriglie; doppie file di ceri accesi escono dall'ombra spegnendosi nella luce del giorno: croci, arazzi e candelabri campeggiano sullo sfondo buio dell'arcata, e nuove filastrocche di tonache, di cappe e di rocchetti sbucano come fiotti eruttati dal fondo di quella gola nera ululante di muggiti e boati armonici. Il bulicame di teste nel piazzale sfriggola al cociore dell'altoforno solare; i drappelloni del velario pendono immobili nell'aria stagnante infocata dal pigia pigia della gente esala una tanfata asfissiante. Un enorme arazzo si allargò sul nero del portone, aprendo la marcia delle congreghe femminili. Passano le _ricoverate_, vecchie stracche, arrembate, faccie gialle, rugose, macilenti, imbacuccate nella frescura delle pezzuole bianche azzurrate. Le _addolorate_ tutte in nero, serve, rivendugliole, faccie da ciane impertinenti, comari e pettegole in gran pompa, camuffate da gran dame, procedenti con gli occhi atterrati, con sussiego e compostezza matronale così grottesche che desta l'ilarità della gente. E poi le _orfanelle_, in costume bianco paglierino allineate con rigida simmetria: una mano sulla cintola, l'altra giù col candelotto; tutte eguali, come sgusciate da un solo stampo. Cantano brevi strofe a intervalli: un coro leggero compatto, un ronzìo bianco, netto, conciso, tagliente come forbiciata; aprono e chiudono la bocca tutte insieme con precisione automatica; sfilano, scivolano liscie, silenziose, circospette, cogli occhi bassi, ma vedono a destra e a manca dappertutto, come le lepri. E poi una lunga sequenza di balie, governanti e donnicciole coi marmocchi addormentati, o magari anche attaccati al seno. La processione del Corpus-Domini preserva i bambini dai pericoli dell'acqua; chi non ne ha dei suoi, conduce quelli del vicino, del parente. E viene la volta degli angioletti bianchi che da un pezzo aspettano il loro turno. Alcune dame mettono in ordine l'indocile drappello; la chiazza bianca si agita, si allinea e gocciola, sgrana giù dalla gradinata in due fila di perle. Coppie di angioletti con cestelli spandono sulla via a manciate petali di rose, di dalie e di ortensie spampanate. Un _alt_ gridato dal vestibolo corre per le bocche dei sergentini fino all'avanguardia, e la processione si arresta agglomerandosi, dando indietro come riflusso di acque sbarrate. Sulla gradinata, e nel vano oscuro del portone si compongono gruppi di capannelli, e per un momento la gran troscia della processione si atteggia nell'immobile rigidezza di un immenso quadro plastico. Gigio che si era portato innanzi in prima fila, nella voluttà nuova del sentirsi imprigionato come un fuscello in quel guazzabuglio che lo stordiva, si trovò intramagliato fra la fitta di gente che aveva alle spalle, e lo strupo dei _battuti_ di S. Vito ammucchiati come armento. Fratacci spurii con faccie da pelagatti, barbaccie incolte da caprone e mandibole spelazzate che parevano spalmate di gorgonzola, spalancavano le boccacce sgolandosi a vociare litanie, e lanciando nella folla certe occhiate malandrine da far correre le mani sugli orologi. --Avanti, avanti!--si gridò dal fondo. Un fremito corse nelle spire del gran serpentone scintillante dei suoi strani colori nei fulgori del sole, e la processione si rimise in moto. Passa una schiera di giovinette, belle, eleganti figurettine, scolarette e signorine benestanti, sbocciate di fresco come dalie, tuttavia mareggianti nell'ingenua sciatteria infantile, ma già composte, contegnose, nel presentimento dell'avvenire. Occhietti vispi che già intravedono l'amore attraverso le sforacchiature dei cappellini a pamela, occhi di monachella che dicono assai più di quanto ne sanno. Chiome sciolte, treccioni biondi o corvini, cincinni e ricciolini che adombrano le fronti nitide verniciate di giovinezza; rigidezze scontrose, quasi selvaggie di portamento, corpettini snelli già torniti di grazie nascenti, ancheggiamenti flessuosi di gallinella impettita. Gigio ficcava gli occhi in quel cespuglio fiorito, ma quel campanone, quei canti fiottanti nell'aria, e la fulgente e vibrante magnificenza della solennità, lo richiamavano alle ricordanze lontane della sua prima giovinezza. Nel festoso clamore ondeggiava il ricordo della sua buona mamma che tante volte l'aveva condotto piccino a quelle feste. Allora, a quei tempi, la guardia nazionale interveniva alla solennità, e c'era anche il suo povero papà, milite anch'esso con la blusa e lo schioppo, tutti allineati in pelottone là dove adesso zampilla la fontana, e quando il vescovo appariva sulla gradinata, sotto il baldacchino fulgido: _pronti fuoc... pronn..._ una sparpagliata di colpi che pareva un fuoco di fila. E anche allora, vecchi a strupo colle cappe e col candelotto, nimbi di angioletti infiorati con le ali di mussola, e filastrocche di prelati, di chierici, di donnicciole, e trecche abbatuffolate come matrone nella seta nera; la banda civica dopo il vescovo, e dietro una folla disordinata a mucchi, come branco sterminato di montoni. Oh i bei anni festosi trascorsi nell'incosciente adolescenza che si ama, si sospira quando siamo già di tanto lontani, e già si intravede la triste fine di ogni cosa umana! Le feste, le allegrie, sono tutte nel passato, quando non si sa, quando non si conosce nulla, ma quando si pensa e si comprende, le ore più belle della vita sono già passate, e non tornano più! Che miseria, che sconquasso sentirsi sfiduciato così e solitario, buttato là, come per ironia in mezzo a quel tripudio di babbi e di mammine esultanti nel sorriso dei loro angioletti! Gigio sentiva il peso inerte, increscioso della sua esistenza senza scopo, senza speranze. Che cosa se ne faceva del suo ingegno, della sua salute, della sua fortuna, se la sua casa era vuota e non aveva più nessuno al mondo? Rinchiuso come un baco, rattrappito in sè stesso come un volgare egoista; ed il mondo colle sue feste co' suoi chiassi allegri gli passava a canto in trionfo, cantando inni alla primavera, alla gioia della casa e della famiglia. Un'onda larga e piena di umani affetti lo investiva, lo sommergeva, via fiottando per l'ampio oceano della vita, abbandonandolo asciutto, confitto nella rena come scoglio brullo. Perchè, per chi era vivo? Ah la natura è inesorabile per i deviati che battono una falsa strada! Ella, la gran madre, vuole e vuole nidiate a tutte le gronde, fiori in tutte le aiuole, bambini in tutte le case; a che gli avevano giovato i suoi estri giovanili di poeta? Quale costrutto aveva ricavato dalla sua vita randagia, dalle sue corse affannose fra gli orpelli fastosi del gran mondo che si diverte? Uno scetticismo mortale, insanabile. E dopo tanti spassi e tante lucciole intellettuali, eccolo ridotto al lumicino, così da non saper più dove voltarsi per liberarsi di quella tristezza infinita che lo annientava. Incompleto, deviato, mancato a ogni intento; tutta la sua vita non era stata che un ibrido miscuglio di vanità e di contraddizioni che lo serravano senza scampo fra l'uscio e il muro. Mai come in quel momento, in quella solennità aveva sentito l'uggia, il rinfaccio della sua esistenza inutile, incresciosa. Egli aveva cuore per sentire e comprendere le armonie di quella vita che si svolgeva intorno a lui. La vita vera, effettiva senza pose, senza tetraggini filosofiche, che consiste nel lasciare alla natura il còmpito suo, senza indagare il come e il perchè delle cose, chè tanto fa lo stesso, e il mondo tira innanzi di per sè o per fatalità o per casualità, comunque, pensi cui tocca. Ma l'uomo sensato deve badare a sè, pigliare il vento come viene, e lasciare il da far suo alla provvidenza. La natura sghignazza in faccia ai vagelloni che ingobbano sul microscopio per sorprendere i suoi secreti e interrogarla sul _modus vivendi_. Ella spiega nella pompa del sole le sue sterminate abbondanze; popola i cieli, i mari, le terre, e tira via sdegnosa, e stritola ne' suoi ingranaggi chi fuorvia dalle sue leggi, butta i retori nel pantano, ripudia i timidi, i deboli, spegne i rampolli anemici cresciuti col biberone dell'etica e dell'estetica, e benedice il grembo fecondo delle massaie, delle lavandaie che le assicurano una rigogliosa e forte posterità. Ecco, la vita era tutta lì in quella festa, in quel bailamme di chiacchiere, di chiurli e di risate, nell'osannare delle campane vibranti squilli e clangori festosi all'aere sereno. Sul bianco corteo delle bambine infiorate convergevano, dardeggiando correnti elettriche d'amore; le mammine, i babbi, i nonni assiepati nel fitto della folla si rispecchiavano nel serafico sorriso di quegli occhioni che sembravano finestrelle spalancate nel cielo. Ecco, o scettico gaudente, lo scopo, la ragione della vita! Gigio si smarriva in quel fiotto di pensieri senza pur accorgersi del sole che lo bocciava ferocemente cagionandogli vertigini, allucinazioni, vagellamenti di congestione. Quei cori serafici, quei canti di monacelle, le zaffate lontane dell'organo, quella spampanata di vita, saettavano un atroce rinfaccio alla sua stupida esistenza di gattone stracco accovacciato sul focolare spento. Il campanone si rizzava in piedi solenne, maestoso, torreggiante come giudice, dal finestrone del suo pergamo, suonandogli l'inesorabile requisitoria degli anni passati, scaraventandogli sulla testa acciocchita il miserere della giovinezza perduta. Un olezzo di fiori nell'aria, un mormorìo nella folla lo riscossero. Ecco, passavano le bambine; testoline riccintelle inghirlandate, trinate, spiccanti negli svolazzi aerei delle mussole. Faccine paffute, lustre, verniciate come bambole, e musettini palliducci, biondone trionfanti negli aurei riccioloni, e brunettine vispe e già quasi civettine; e uno scintillìo, un dardeggiare irrequieto di occhioni neri, gazzerini, bigi, con dentro il cielo di primavera. Sfilavano silenziose, sorridenti, beate nel sentirsi intorno le cascate dei veli, e lo scricchiolìo degli stivaletti nuovi. La folla si pigiava vie più per far largo al candido drappello; tutte le faccie si illuminavano di sorriso: è l'avvenire in fiore che passa, il rivoletto fresco e puro che attraversa l'acquitrino, diffondendo intorno un fremito di vita, un refrigerio soave di frescura. Alcune bimbe riunite a grappoli intorno ai panieri, affondavano le manine nel mucchio soffice dei fiori spampanati, e giù in furia a giuncare la via, sparpagliando a manciate, a nimbi petali di dalie, di rose e geranii, un tripudio di colori chiassosi. Un nuovo _alt_ dei sergentini paralizza la marcia; le bambine si attruppano in serrafila come pecorelle; più lungi il baldacchino episcopale co' suoi pennacchi piumati, si arresta mezzo su mezzo giù, squassando l'onda de' suoi frangioni e delle sue frappe d'oro. Ancora una filastrocca di prelati sfilanti alla luce del sole, raccolti nella rigidezza metallica degli ampi piviali, colle schiene lucenti iridate, che sembrano ali di giganteschi scarabei. Ed ecco apparire il vescovo nel nimbo fùmeo dei turibuli. Procede lento, la testa bella di argentea canizie, circonfusa nei fulgori della mitra gemmata. Tutto intorno un brulichìo di prelati e cerimonieri, un luccicare di parati aurei, di stole contigiate, piviali fulgenti dei più bei colori di carrughe, e teste nevicate. Precedono i cantori della cappella, le bocche aperte e gli occhi svagati in pascolo sulla folla: cantano con precisione un cànone sacro pieno di classica venustà. Ecco i canonici, stracchi, arrembali, procedenti con gli occhi atterrati, la testa ciondoloni sulla mantelletta di ermellino, come puttini decrepiti usciti dal refettorio col tovagliolo al collo. La banda attacca una marcia religiosa, i canterini vociano a perdifiato; tutto intorno un echeggiare ondivago di salmodie dileguanti lontano nei fulgori del sole; e su quel guazzabuglio di clamori, di cantilene e di suoni, il formidabile campanone batte la solfa, imprimendo una pulsazione ritmica in quella babilonia. Ecco il vescovo barellante sotto il peso dei paramenti pontificali. Le donnicciole e i contadini cascano in ginocchio e l'immensa distesa di teste si incurva, si alletta come messe al soffio dell'aquilone. Gigio stette saldo, a testa alta nel reclinare riverente di tutte le fronti. Un ultimo scrupolo, un ultimo guizzo di scetticismo mondano lo teneva refrattario all'ambiente, ritto, torreggiante sulla folla prosternata. Intorno a lui erasi fatto un vuoto. Non osava voltarsi, ma sentiva dietro le spalle l'isolamento, e l'ingrata stonatura della sua protervia in quel momento solenne. Solo, in prima fila, rigido, fiero, fra una turba genuflessa, si ergeva sdegnoso, scettico, dispettoso contro la chiesa, contro la fede, contro il sentimento di Dio. E tuttavia quella fierezza non era affatto nell'intimo il gesto di un'anima ribelle; nel suo cuore vibravano in quel momento tutte le corde degli umani affetti; la sua mente aperta a tutte le comprensioni, poteva assorgere dalle ubbìe superstiziose del volgo alle più alte idealità della fede, e comprendere e intendere e sentire come il concetto di un Dio onnipotente e misericordioso possa allietare di un raggio di luce le più umili coscienze ignare, e i più lucidi e forti intelletti. Anch'egli oramai sentiva nell'anima il clangore festoso di quella solennità, il suo cuore andava colla processione sfilante al sole. In quell'ambiente di effusioni cristiane, fra quelle turbe prostrate clamanti anelanti a Dio, come rannicchiare il concetto della vita nella gretta e materiale casualità? Come sottrarsi ai bagliori di quella fede che scavalcando tutte le barriere della logica e dal raziocinio, prende la fuga ai cieli e riallaccia la ragione degli eventi umani alle imperscrutabili armonie che governano l'universo? Gigio nel tumulto di tanti pensieri rimaneva ritto, oblioso di sè stesso, ma la sua coscienza piegava soverchiata dalla solennità del momento. Nel fumigio dei turibuli si profilava l'imagjne della sua pia e santa mamma, riassurgevano i dolci ricordi della sua adolescenza. Egli intendeva, sentiva tutto il fascino della santa tradizione cristiana che riempie le anime ingenue di arcano ardore, librandole alle idealità della misericordia e della bontà divina. Dio, la provvidenza, l'armonia delle leggi naturali, significano una cosa sola, il grande, l'immane mistero che regge l'universo. La scienza e la fede si affacciano ugualmente per vie diverse a quel gran punto interrogativo, e si prosternano sgomente: credere può essere un errore, negare è assurdità miserevolmente stolta. Circonfuso nel nimbo degli incensi passava il vescovo torreggiante sul magnifico corteo coreografico, fulgido nella maestà della sua mitria gemmata; una nobile e bella figura di vegliardo dall'aspetto sofferente, spirante evangelica soavità dagli occhi sereni. Certo il buon pastore scorse quel ribelle altiero che solo in mezzo a tutto un popolo prostrato gli negava l'omaggio dovuto al suo grado, e alla sua veneranda canizie; ma lo commisero come pecorella traviata, ravvolgendolo in un'occhiata piena di mansuetudine e di perdono. Gigio si sentì atterrato al cospetto di quel quadro grandioso che pareva un ricordo dei tempi medioevali. Sotto la penombra dell'ampio baldacchino, nel luccicare degli ori e degli arazzi, nel nimbo fùmeo degli incensi, si addensava il grandiloquente fastigio di Roma cattolica, riverberante dalle remote tradizioni le lotte, i martirii e i trionfi della fede. Quegli inni, quei cantici, quei clamori, erano ancora l'eco degli antichi misteri, le laudi dei flagellanti, il _Dio lo vuole_ dei crociati, tuttavia echeggiante nel corso dei secoli. Crocefissi, stendardi, candelabri altolibrati nell'aria soleggiata, vibravano aurei fulgori e strofe alate di epopea; sotto la mitria gemmata di monsignore si modellava il profilo carolingio di Turpino episcopo e guerriero; sugli alti e fastosi pinacoli del baldacchino galoppava fulminea l'ombra magnanima del pio Goffredo. Ecco, il vescovo alza l'ostensorio. Giù la fronte, miserabile pulviscolo; dinanzi ai fulgori di quella sacra raggiera i cui fasci luminosi hanno ammansito l'efferratezza di Attila _flagellum dei_, e prostrata nella polvere di Canossa la superbia di Arrigo imperatore! Gigio fu vinto, abbacinato: le scettiche riluttanze del mondano, le reticenze cavillose del filosofante squagliarono. Chinò la testa riverente, e il vescovo tirò via solenne, maestoso. FINE. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): P. 10 Sabba gattesco [grottesco] " 13 ossia l'evoluzione compiutasi nell'etica [etiga] gattesca " 23 Certe finestre all'ultimo [ultmo] piano " 35 Mi svaga e [a] mi attrae assai più il piccolo ragno Grafie alternative mantenute: brontolio / brontolìo canone / cànone danno / dànno fruscio / fruscìo STÈNTORE / STENTORE [End of _Contrada dei Gatti_ by A. G. Cagna] [Fin de _Contrada dei Gatti_ par A. G. Cagna]